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sabato 13 giugno 2015

La Storia Della 24 Ore Di Le Mans e L'Incidente Del 1955

La 24 Ore di Le Mans nacque nel 1923 per iniziativa di Charles Faroux, figura di grande importanza nell'automobilismo francese e mondiale. La sua idea era di organizzare un banco di prova per testare l'affidabilità e la qualità delle macchine prodotte: macchine sportive, ma anche automobili di tutti i giorni. Non passò molto tempo e la gara si trasformò in una ribalta per macchine speciali: vetture da Grand Prix. Erano permessi prototipi, purché il costruttore si dichiarasse disposto a costruirne un dato numero. Ecco perché alla stessa gara partecipavano Mercedes, Ford, Ferrari e Jaguar, accanto a Panhard con motori da 745 cc. Henry Ford con la sua GT40 spese un patrimonio per realizzare vetture competitive dal punto di vista tecnologico, quasi per vendetta nei confronti di Enzo Ferrari che aveva rifiutato la sua offerta di acquisizione dell'azienda di Maranello. Nel 1966 la vendetta di Ford è compiuta con 3 vetture in parata nei primi 3 posti del podio (a vincere furono Bruce McLaren e Chris Amon). Se questa gara era motivo di grande rischio per i piloti, costituiva però anche forte attrattiva sul pubblico. Gli spettatori arrivavano con ogni mezzo, da tutto il mondo, e si sistemavano per la notte, trasformando la cittadina in una Las Vegas europea, piena di luci, colori, suoni, pub aperti, tende, ristoranti improvvisati. Una vera e propria città in miniatura (“Le Village”) sorgeva al centro del circuito. Lì si poteva fare di tutto: bere un birra, comprare un'automobile, farsi una doccia, mangiare.
La particolarità della gara per i piloti è percorrere il rettilineo a piedi, prima di balzare in macchina. Ci sono punti chiave molto pericolosi, come il tratto Maison Blanche dove i piloti sfiorano le case. L'11 giugno di 60 anni fa la gara fu funestata dall'incidente, forse, più drammatico della storia dell'automobilismo nel quale persero la vita 83 persone (compreso il pilota francese Pierre Levegh) e rimasero ferite altre 120 persone. Quella tragedia cambiò per sempre l'interesse nei confronti della sicurezza da parte del mondo della velocità. Per vari decenni la 24 di Le Mans fu uno degli avvenimenti sportivi più esaltanti. 


L'EDIZIONI PRECEDENTI E PIERRE LEVEGH
Ci sono giornate nella storia dello sport che per un motivo o per un altro non si dimenticano.
Questi però sono i motivi meno nobili, quelli più dolorosi e che con lo sport in sè non c'entrano nulla.
Nelle corse automobilistiche per trovare quel giorno bisogna tornare indietro di 60 anni, precisamente all’11 giugno 1955 quando durante la 24 ore di Le Mans si verificò l’incidente più drammatico della storia della velocità nel quali persero la vita 83 persone, compreso il pilota francese Pierre Levegh.
Inoltre rimasero feriti oltre 120 individui accorsi nella città della Loira, esattamente come altre decine di migliaia di appassionati, per vedere sfrecciare i piloti più forti del mondo sulle vetture più evolute e veloci dell’epoca. Dopo quella immane tragedia si iniziò veramente a lavorare in maniera logica e costruttiva sull’importanza di rendere i tracciati sicuri sia per i piloti sia per gli spettatori.
Per Pierre Levegh, un 50enne driver, la 24 ore di Le Mans era diventata non una semplice corsa ma una vera e propria ossessione. Sin da quando poco più che ventenne aveva assistito alla prima edizione della leggendaria gara lo scopo della sua vita era diventato quello di vincere la 24 ore di Le Mans.
Levegh ci era andato vicinissimo nel 1952 quando la sua Talbot ruppe il motore nell'ultima ora di gara con quattro giri di vantaggio sul secondo classificato, a causa di un cambio marcia errato causato dalla stanchezza del pilota che scriteriatamente aveva guidato ininterrottamente per oltre 22 ore senza cedere il volante al compagno di squadra  Jean Trevoux. Quella condotta di gara assolutamente folle e scriteriata fu deplorata da addetti ai lavori e tifosi ma non da Alfred Neubauer, il direttore sportivo della Mercedes Benz che a fine gara entrò nel box di Levegh e gli promise che la prossima volta che la Mercedes si fosse presentata ai nastri di partenza della Le Mans una delle vetture tedesche sarebbe stata guidata proprio da lui.


LA TRAGEDIA DEL 1955
La Mercedes si astenne da Le Mans sia nel 1953 sia nel 1954. Ma nel 1955 tornò prepotentemente in auge con le formidabili 300SLR e tre equipaggi composti da Fangio e Moss come prime guide, André Simon e John Fitch come seconde guide e Karl Kling e proprio Pierre Levegh come piloti dell’ultima vettura. Per Levegh si trattava della chance della vita ma qualcosa non andava: sin dalle prime prove si intuì che quel bolide fenomenale era inadeguato per uno come Levegh che era quasi intimorito dalla potenza della 300SLR e non riusciva ad essere veloce come al solito.
Nelle qualifiche era stato il più lento in pista dei piloti Mercedes che si era già pentita di avergli dato fiducia. In cuor suo la casa tedesca era arrivata a sperare nel ritiro ma Levegh era troppo ostinato e cocciuto per fare una cosa del genere. Sarà, in ogni caso, la sua ultima gara.
La corsa era iniziata regolarmente alle 16 di sabato 11 giugno, in piena estate francese.
Le Ferrari, le Jaguar, le Mercedes si erano date battaglia fin dal primo minuto.
Sia Hawthorn (Jaguar) sia Fangio (Mercedes) compivano il giro completo del circuito in poco più di quattro minuti, seguiti da Castellotti, Maglioli, Kling, Levegh, Walters, Rolt, Beauman e Musso.
Sembrava più un Grand Prix che una corsa di durata.
La stessa irruenza, la stessa battaglia forsennata per il comando fin dai primi istanti, la stessa adrenalina. Mercedes contro Jaguar: la gara era tutta lì: gli altri, le Austin Healey, le Nardi, le Frazer Nash, le Cunningham, le Cooper, le Osca, le Lotus, non contavano niente.
Stonava, nel gruppo, una Mercedes, dello stesso modello delle altre, che già stava per essere doppiata.
Era quella guidata da Pierre Levegh. Nel corso della terza ora di gara  sul rettilineo dopo la chicane Ford, la sua Mercedes 300SLR agganciò a velocità altissima la Austin-Healey di Lance Macklin che fu costretto a spostarsi repentinamente verso i box per evitare un tamponamento con la Jaguar D-Type di Mike Hawthorn, rientrata ai box. Dopo aver urtato un cumulo di terra, la Mercedes di Levegh si schiantò sulla barriera che divideva la pista dalla tribuna davanti ai box, prendendo fuoco.
Alcuni pezzi dell'auto (il cofano, l'asse anteriore delle ruote) volarono sulla tribuna piombando violentemente sugli spettatori che furono letteralmente falciati e travolti dall’esplosione e dai detriti.
Macklin sentì un colpo indescrivibile da dietro, la sua macchina compì un folle testa-coda per poi sbattere contro gli stand, falciando un giornalista e un gendarme, ed essere rilanciata con violenza dall'altra parte, per fracassarsi definitivamente contro il muro delle tribune.
Nel momento dell'urto, aveva ancora avuto la possibilità di vedere con la coda dell'occhio un'ombra argentea passargli sopra la testa e un'altra ombra argentea che gli filava accanto sulla destra.
Quando Macklin scese, scioccato, dalla sua vettura distrutta, non sapeva cosa fosse successo.
Non aveva capito che Levegh, al volante di quella tremenda 300 SLR, trovandosi di fronte la sua macchina l'aveva colpita in pieno, ad una tale velocità da decollare, superarla per aria, schiantarsi sul pilone del tunnel pedonale a lato delle tribune e disintegrarsi con due esplosioni al di sopra di una folla di centinaia di persone. E questo mentre Fangio, con millimetrica precisione, riusciva a trovare un varco tra la macchina di Hawthorn, ferma al box della Cunningham (tre box più in la’ del proprio) e quella di Macklin.
Dove prima c'era un folla di persone in piedi, ora si vedevano soltanto persone abbattute a terra, o inginocchiate vicino a porgere un primo disperato soccorso. Parecchi testimoni furono concordi nel descrivere la scena come se fosse scoppiata una bomba. Decine e decine di corpi falciati, nello spazio di un attimo, fatti letteralmente a pezzi. Il prato aveva cambiato colore ed era disseminato di sangue.
Quello che era stato un urlo unisono, si spense in un silenzio profondissimo che durò qualche secondo.
Quindi iniziò la solita frenetica confusione di tutte le catastrofi: parenti e amici che premevano per arrivare alla zona, nella speranza folle di scorgere i propri cari sopravvissuti; ambulanze, dottori improvvisati, forze di polizia, giornalisti, infermieri, uomini dell'organizzazione.
E in mezzo al disumano dolore, alcuni meccanici della Mercedes che, con assoluta rapidità, nel giro di dieci minuti dall'incidente avevano raccolto e portato via tutti i pezzi della macchina di Levegh.
Solo la gente sopravvissuta in tribuna e qualche meccanico della Mercedes, che in meno di un quarto d’ora raccolse tutti i pezzi della macchina di Levegh, si accorse con lucidità della portata della catastrofe occorsa. E intanto le autorità affrontavano il solito, terribile dilemma.
Sospendere la corsa o continuarla? Ammettere l’enormità della tragedia o far finta di niente, nel timore che la gente, presa dal panico, si accalcasse alle uscite, ostacolasse ancora di più di quanto già non fosse l’azione dei soccorritori? Prevalse il desolante “The Show Must Go On”. Nel box della Mercedes la concitazione era al massimo. Da Stoccarda arrivarono telefonate molto chiare: ritirarsi!
Neubauer e Uhlenhaut avevano delle riserve: Faroux li implorava di continuare, ed essi stessi esitavano a sprecare una vittoria certa. Le telefonate, tra l’altro difficilissime, visto che da tutte le parti della Francia si tentava di comunicare con Le Mans e viceversa, si fecero convulse.
A 7 ore dall’incidente si arrivò ad una decisione unanime: la macchina causa di morte per 81 persone era una Mercedes, non si poteva continuare a correre. Quando la Mercedes avvertì lo stand Jaguar della propria decisione, fu subito chiaro che non sarebbe stata seguita su questa strada.
L’unica che importasse alla Jaguar era quella della vittoria.
In un clima surreale la corsa arrivò alla fine e per un beffardo segno del destino proprio Mike Hawthorn, pesantemente implicato nell’incidente, vinse la 24 ore brindando e gioendo fra l’altro come se nulla fosse. Quei festeggiamenti rimasero una macchia indelebile nella carriera di Hawthorn.


LE COLPE
Di chi fu la colpa della strage?
Di Levegh che, troppo vecchio, non avrebbe mai dovuto gareggiare con quella macchina, in quel gruppo di piloti? Oppure di Macklin che, distratto dall’aver guardato nello specchio retrovisore, non si era accorto in tempo della frenata di Hawthorn?
O di Hawthorn, che calcolò male la distanza che lo separava dal proprio stand, tanto da trovarsi a frenare troppo bruscamente subito dopo il superamento di Macklin, finire lungo, tre box più avanti, e farsi prendere da una crisi di isteria quando gli fu chiaro cosa era successo?
O della Mercedes, che aveva inserito nei telai due piccoli serbatoi di additivi illeciti, da cui il pilota attingeva nei momenti in cui aveva bisogno di maggiore potenza tramite un comando del cruscotto, e che furono la causa della doppia esplosione della vettura di Levegh?


LE CONSEGUENZE
In seguito all’incidente, molte gare della stagione furono cancellate.
Non si disputarono  il Gran Premio di Germania, la Coppa Acerbo e il Gran Premio di Svizzera.
La Svizzera introdusse una legge per vietare le gare automobilistiche sul suo territorio (una normativa in vigore ancora oggi!) mentre la Mercedes, dopo aver vinto il campionato di F1 con Fangio, si ritirò dalle corse in segno di rispetto per le vittime, e vi fece ritorno solamente 32 anni dopo, nel 1987.
Negli Stati Uniti l'American Automobile Association il più prestigioso automobile club della nazione, decise di chiudere qualunque attività sportiva.
Nonostante un’inchiesta ancora oggi non si conosce con chiarezza i perché e le colpe di quella strage.
Di certo c’è che il disastro di Le Mans ‘55 resta una delle pagine più nere della velocità che, anche a 60 anni di distanza, qualunque appassionato e addetto ai lavori non deve mai dimenticare.


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