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martedì 30 settembre 2014

La Storia Dello Yankee Stadium e Del Bronx


Lo Yankee Stadium era il Ballpark per eccellenza, il più conosciuto nel mondo, abbandonato nel 2008 dopo 85 anni di storia. Si tratta della casa dei New York Yankees, eletta nel 1999 “la squadra del secolo”. Maestoso e suggestivo, lo Yankee Stadium. Gonfio di storia e di prestigio. L’arena dei record, palcoscenico delle stelle. Ad accrescerne il mito anche il fatto che lo stadio fosse situato nel Bronx.
Lo Yankee Stadium è stato per 85 anni la casa dei bombardieri del Bronx.
Indimenticati idoli delle folle come Babe Ruth, Lou Gehrig, Joe Di Maggio, Yogi Berra, Bill Dickey, Mickey Mantle, Roger Maris, Whitey Ford, Phil Rizzuto, sino ad arrivare a leggende recenti.
A questa mitica Arena ha lasciato il posto, sempre lì nel Bronx, ad un nuovo modernissimo complesso sportivo.


BRONX
Lo Yankee Stadium è situato nel Bronx grande quartiere popolare (1 milione e 500mila abitanti) nella estremità nord di New York City, all’incrocio tra la 161st Street e River Avenue. La zona viene suddivisa in South Bronx e North Bronx.
Queste zone sono inoltre, a loro volta, suddivise nei quartieri di Highbridge, Mount Eden, Morris Heights, Hunts Point, Morrisania, East Tremont, Soundview e West Farms.
Nonostante la sua fama di luogo malfamato, il Bronx vanta molte attrattive e luoghi d'interesse: tra cui parchi, un giardino botanico ed un vastissimo zoo. La criminalità è più che altro concentrata nella zona Sud. Infatti a causa dell'improvviso incremento demografico ed urbanistico, unito ad una diffusa povertà, il quartiere divenne una delle aree più violente e degradate di New York a cavallo tra gli anni '60 e '70 del XX secolo, tanto da far divenire il toponimo generico "Bronx" (che identifica l'intero borough) come sinonimo di quartiere pericoloso e degradato per antonomasia.
Tuttavia, un rinnovamento urbano ed una parziale ripresa dell'area ad inizio anni '80, in cui si sono anche sviluppati i fenomeni artistici del graffitismo, dell'hip hop e della breakdance, hanno migliorato la situazione del quartiere che rimane comunque una delle aree a maggior densità criminale dell'area urbana newyorkese. Secondo stime del 2013, la circoscrizione 41 detiene il record cittadino con 26 crimini per ogni mille abitanti. I tipi di reati contemplati sono: omicidio, stupro, furto, furto con scasso, aggressione e rapina.
Come detto, sebbene il Bronx rimanga una delle zone con il tasso di disoccupazione più alto di New York, la differenza rispetto agli altri quartieri si è via via ridotta negli anni. Molte zone sono state “bonificate”. I reati sono diminuiti molto, e negli anni sono sorti anche nel Bronx alcuni complessi residenziali tipici dei suburbs.


STORIA DELLO YANKEE STADIUM
Lo Yankee Stadium ha ospitato 6581 partite di regular season dei New York Yankees dal 1923 al 2008.
E’ un’arena con una capacità di 57.545 posti. Lo stadio è famoso per la sua forma caratteristica a diamante ossia a ventaglio. In passato lo Yankee Stadium è stata la casa anche dei New York Giants di football, nonché teatro di una ventina fra i più celebri combattimenti di boxe di tutti i tempi.
Per sottolineare l'importanza della squadra che ha ospitato, basta dire che gli Yankees hanno vinto più World Series di tutti. Lo Yankee Stadium si porta dietro anche un nickname: The House That Ruth Built (La Casa che Ruth ha costruito).
La primissima partita giocata allo Yankee Stadium porta la data del 18 aprile 1923: nel giorno della storica inaugurazione gli Yankees sconfissero i Boston Red Sox per 4-1.
Babe Ruth mise la sua firma sul primo fuoricampo nella storia dello Yankee Stadium (un homer da 3 punti). Bob Meusel realizzò il primo doppio e Norm McMillan il primo triplo. Wally Pipp fece il primo put-out. Bob Shawkey confezionò il primo strikeout, e vinse la partita con un “complete game”.
Gli Yankees vinsero la loro prima World Series nella stagione inaugurale dello Yankee Stadium (1923).
Lo stadio in origine conteneva 58 mila posti. Ma il giorno della prima partita c’erano 74.217 spettatori, e si calcola che altre 25 mila persone siano state rimandate indietro. Durante gli anni venti e gli anni trenta la popolarità degli Yankees era tale che folle in eccesso, da circa 80 mila persone, non erano inusuali. Lo Yankee Stadium dovette la sua creazione in larga misura a Babe Ruth.
E il suo disegno accontentò il mitico bomber mancino permettendogli di battere molti fuoricampo. Inizialmente il muro era a 295 piedi (90 metri) dal piatto di casabase lungo la linea del campo destro e 350 piedi (110 metri) presso la fine del campo nella zona destra. Il campo era decisamente più lungo (490 feet, cioè 150 metri) nella parte più profonda al centro, soprannominata Death Valley (La valle della morte). Le tribune scoperte che si trovavano nel settore di destra vennero appropriatamente denominate “Ruthville”. Fino alla stagione 2007 gli Yankees hanno ospitato, allo Yankee Stadium di New York, 37 World Series. Molto più che in qualsiasi altro stadio di baseball.
Inoltre, il prestigioso impianto sportivo nel Bronx ha ospitato per 4 volte la All Star Game della MLB: nel 1939, nel 1960, nel 1977 e nel 2007. La demolizione è avvenuta tra 2009 e 2010.



NUOVO BALLPARK
Nel 2007 è iniziata la costruzione della nuova struttura sorta in prossimità della vecchia, nel sito appartenente al Dam Park Macombs. Il nuovo Stadio ospita più di 52mila posti a sedere.
A disposizione dei fruitori dello stadio c’è un numero consistente di parcheggi multipiano, inoltre presso l’enorme centro commerciale (circa 90mila metri quadrati di superficie) annesso alla struttura sportiva è possibile trovare negozi e servizi di ogni tipo: dalla ristorazione ai centri benessere, dalle piscine ai negozi dove fare shopping, al cinema.
L’incredibile complesso del nuovo Yankee Stadium è costato la bellezza di 1,5 miliardi di dollari, costituendo un primato da questo punto di vista, eguagliato solo dallo stadio di Wembley.
stadio yankee Dal punto di vista della struttura architettonica, lo stadio degli Yankees ripropone le linee stilistiche di quello passato. La volontà, infatti, era quella di non dimenticare, ma di celebrare la storia di questa grande e famosa squadra di baseball.




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domenica 28 settembre 2014

La Storia Di Duncan Ferguson: Risse, Espulsioni, Carcere

Duncan Ferguson, nato a Stirling nel 1971, venne soprannominato Duncan Disordely o Big Dunc.
La sua carriera inizia in Scozia tra le file prima del Dundee Utd e poi dei Rangers, dove gioca poco più che una manciata di partite.
La svolta però è in Inghilterra, dove con l'Everton segna 61 reti in 229 presenze e vince anche una FA Cup nel 1995 (giocherà anche i preliminari di Champions League nel 2005).
La primissima partita da titolare per Duncan è il derby della Merseyside contro gli acerrimi rivali cittadini del Liverpool.
Il sabato sera, meno di 48 prima del derby previsto per il "Monday Night", Duncan decide di farsi un giro per la città, passando da un pub all'altro.
Il tasso alcolico di Duncan arriva ben presto a livelli difficili da gestire. Ferguson entra con la sua auto in una stazione degli autobus assolutamente interdetta alle altre vetture.
Viene notato da una volante della polizia che lo ferma e lo porta in caserma per il tasso alcolico ben oltre la soglia prevista. Diversi poliziotti tifosi dell’Everton alla stazione di polizia di St. Anne Street lo riconoscono. Iniziano a passargli bevande zuccherate e acqua in grandi quantità.
Duncan butta giù tutto e quando arriva la prova del test il suo limite è sopra di solo 15 milligrammi. Dopo qualche ora passata alla stazione di polizia, Duncan verrà rilasciato senza altri procedimenti alle 6 del mattino. Ferguson stesso ammetterà di aver bevuto non meno di 5 bottiglie di vino rosso nelle 24 ore precedenti. Fatto sta che per il egli riesce ad evitare l’arresto per guida in stato di ebbrezza.
L'esordio non è dei migliori, anche perchè aveva ancora strascichi della sbornia nel giorno precedente, tant'è vero che Joe Royle, l’allenatore dell'Everton, è tentato di toglierlo alla fine del primo tempo. Poi cambia idea. Ad inizio ripresa Neil Ruddock, il roccioso difensore dei Reds, entra in maniera brutale da dietro su Ferguson.
"Da quel momento è come se Dunc fosse stato arruolato in una guerra", dirà Joe Royle a fine partita.
Diventa una furia scatenata e segna un gran goal di testa, diventando subito l'idolo di Goodison Park.
Un’altra cosa che Duncan Ferguson non sopportava era di vedere "duri" andarsene in giro ad intimidire e a picchiare i compagni di squadra.
Contro il Charlton, il difensore islandese Hreidarsson si era reso protagonista di diversi interventi ai limiti del codice penale nei confronti dei giocatori Toffees.
Ferguson stava in panchina quel giorno.
A meno di 20 minuti dal termine Moyes, manda in campo Ferguson.
"Adesso vediamo quanto sei duro", sono le prime parole di Ferguson al giocatore islandese.
Dopo circa 10 minuti, durante un duello aereo, Hreidarsson viene colpito al volto da Ferguson che non attende neppure di vedere il cartellino rosso e si incammina verso gli spogliatoi.
Nella breve esperienza a Newcastle nel 1999 riesce a giocare anche in Coppa UEFA.
Il passaggio al Newcastle fu controverso perchè venne venduto segretamente dall'allora presidente dell'Everton Peter Johnson, all'insaputa anche del manager Walter Smith.
Ferguson scrisse una lunga lettera d'addio ai fans dei Toffees, affermando che non li avrebbe mai dimenticati (il passaggio si concretizza per 8 milioni di sterline).
Kieron Dyer, l’ex nazionale inglese e compagno di squadra di Ferguson al Newcastle, racconta che durante un allenamento Ferguson più volte si era lamentato verso il compagno di squadra Alessandro Pistone, reo di non servirlo a dovere. All’ennesima lamentela, Pistone decide di rispondere "Fuck off Dunc!". Ferguson rimane immobile per diversi secondi, fissando negli occhi il difensore italiano.
Al rientro negli spogliatoi Ferguson va verso Pistone, "Vieni fuori che dobbiamo risolvere il nostro problema" gli dice Ferguson. Negli occhi di Pistone c’è il panico.
"Non farmelo ripetere" urla Ferguson "o ti porto fuori da qui a calci nel culo".
In quel preciso momento Pistone disperato inizia a piangere, tremando come una foglia.
Ferguson è decisamente spiazzato, ma non perde l’occasione di mettere in chiaro le cose.
"Te lo dico ora e non te lo dirò mai più. Mandami un’altra volta affanculo e io ti apro la testa in due".
Dopo Newcastle, Dunc torna all'Everton e si ritira nel 2006, entrando a ferri corti con l'allora manager David Moyes (Ferguson non gli strinse la mano quando si ritirò).
Rimane il giocatore scozzese ad aver segnato più gol in Premier League (69).
Giocatore rude e fortissimo fisicamente (1.93 m per 88 kg), grande colpitore di testa ma anche rissaiolo da strada, viste le tante malefatte in carriera.


RISSE, TESTATE, CARTELLINI ROSSI E CARCERE
In carriera collezionò ben 9 cartellini rossi (di cui 8 in Premier League, a pari merito con Dunne e Vieira).
Non tantissimo pensando ad esempio a Roy Keane o Vinnie Jones però gli episodi di cui si macchiò (in campo e fuori) furono da codice penale o quasi.
A 23 anni finisce dietro le sbarre per aver colpito John McStay con una testata volontaria durante Rangers-Raith Rovers giocata il 16 aprile 1994.
La sentenza aprì un nuovo capitolo nei rapporti calcio-giustizia: Ferguson fu il primo giocatore britannico a finire in carcere per un'azione avvenuta in campo.
L'arbitro Kenneth Clark non si era accorto di nulla e Ferguson non era stato espulso.
Venne smascherato da un filmato in tv, visto tra gli altri dal procuratore generale scozzese che aprì un procedimento legale contro di lui.
Ricevette ben 12 giornate di squalifica e 3 mesi di carcere.
Adirato con la nazione e la federazione per la decisione, decise di abbandonare la Scozia e la nazionale scozzese, nonostante più volte i selezionatori avrebbero voluto convocarlo.
Ferguson prima del carcere (nel 1995) per ben tre volte era stato giudicato in tribunale per aggressioni, avvenute pero' fuori del campo.
Risse contro un poliziotto, un tifoso con le stampelle e un pescatore in un pub: per quest' ultimo caso aveva ricevuto una condanna di 1 anno, ma con la condizionale.
Contro il poliziotto era stato condannato ad una multa più denuncia con l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale e disordini vari.
Per la rissa con il tifoso solo 200 sterline di multa.
Mandò in ospedale anche uno dei due ladri che nel 2001 cercarono di svaligiargli la casa locata tra Preston e Liverpool.
Due anni dopo un altro ladro gli entra in casa e per tutta risposta, Ferguson, manda in ospedale anche lui (arrestato poi dalla polizia, affermò che Duncan lo aveva aggredito).
Nel 2004 durante il quarto turno di FA Cup giocato contro il Fulham viene accusato di insulti razzisti da Luis Boa Morte ma l'accusa venne respinta dalla Football Association per mancanza di prove.
Sempre nel 2004 venne squalificato per quattro turni e multato di 15.000 euro per comportamento violento e condotta antisportiva, durante la gara contro il Leicester.
Ferguson era stato espulso dopo aver rimediato due cartellini gialli e prima di lasciare il campo aveva aggredito il centrocampista avversario Steffen Freund, prendendolo per il collo.
L'attaccante scozzese era già stato squalificato automaticamente per un turno.
I tre turni aggiuntivi vennero sanzionati in seguito ad un gesto osceno rivolto da Ferguson al pubblico avversario, sempre prima di uscire dal Walker Stadium.
Nel 2006 incassò tre turni di squalifica per un pugno rifilato a Scharner, in seguito la Football Association ne aggiunse altri cinque perché dalla prova tv era risultato che uscendo aveva messo le mani addosso anche a Chimbonda.



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mercoledì 17 settembre 2014

San Diego Padres: Unica Squadra Senza No Hitter (MLB)

Nel 2012 dopo che Johan Santana ha dato ai Mets il loro primo No Hitter nella storia della franchigia, i San Diego Padres sono rimasti l'unica squadra della Major League, a non aver mai realizzato un No Hitter(partita senza concedere valide).
I Padres, si unirono alla National League nel 1969, sembra quantomeno curioso questo record negativo visto le forti rotazioni avute in passato(4 National League Cy Young Award) e lo spazioso Petco Park che rende molto difficili gli Homerun e le valide(per via delle ampie zone di foul).


QUASI NO HITTER
Diciannove volte, i lanciatori dei Padres hanno effettuato un No Hitter sino all'ottavo inning o oltre.
"E 'una cosa così difficile da fare", disse l'allora terza base Chase Headley.
Il 7 settembre del 2008, Chris Young concesse un Home Run a Gabe Kapler dei Brewers con due out nell'ottavo inning a Miller Park.
In tre occasioni, Young perse un No Hitter nell'ottavo inning o oltre.
il 18 Luglio 1972 Steve Arlin contro i Phillies concesse una valida sul conto di due out nel nono inning Denny Doyle.
In generale i Padres hanno realizzato 28 One Hitter, 17 dei quali raggiunti da 1 solo lanciatore(quindi non combinati con i rilievi del Bullpen).
Randy Jones, Bruce Hurst e Andrew Cashner sono gli unici starters ad aver raggiunto per 2 volte un One Hitter.
L'ultima volta che si è verificato era 13 maggio 2010, grazie a Mat Latos contro i Giants.
L'unico valida concessa da Latos avvenne nel sesto inning grazie ad un Infield Single.
Nel 2014 Odrisamer Despaigne ci è andato nuovamente vicino.
In questo caso interrotto all'ottavo inning, dopo gli strikeout di Kirk Nieuwenhuis e Curtis Granderson, il nuovo acquisto dei Californiani ha subito un doppio da Daniel Murphy, seguito subito dopo da un singolo di David Wright.
Le due valide hanno concluso la prestazione di Despaigne, che è sceso dal monte accompagnato da una standing ovation dal pubblico.

I Padres hanno subito un No Hitter per 9 volte, il più recente quello subito da Tim Lincecum dei Giants(addirittura al secondo No Hitter in carriera contro i Padres dopo quello del 2013!).


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La Maledizione Di Cleveland (NBA, MLB, NFL)

Come tutti saprete alcune città nascono sotto una cattiva stella.
Magari per un po’ la fortuna sembra girare, ma quando si fanno i conti, il bilancio è sempre, inesorabilmente, in passivo.
Siamo a Cleveland, Ohio.
Sede della più devastante, pervasiva e totalizzante maledizione dello sport professionistico americano.
Tutto iniziò con il generale Moses Cleveland, che diede il nome alla città ed in seguito andò via tornandosene nel Connecticut.
La storia di Cleveland è popolata appunto di abbandoni.
Posta strategicamente vicina alla regione dei Grandi Laghi, Cleveland giace sulle rive del lago Erie, ed è stata a lungo una città prospera.
Negli anni ’20 era la quinta città d’America per popolazione.
Oggi, è la 45esima, una di quelle città placidamente dormienti, spesso descritte dalla narrativa e dalla cinematografia come città tomba di ogni aspirazione, come la St.Louis di Franzen o la Baltimora di The Wire.
Negli anni settanta, quando iniziò la fuga nei sobborghi tipica di tutte le città americane, Cleveland cambiò in peggio.
Nel 1978 la città andò in default, nove anni dopo l’incendio sul fiume Cuyahoga, ultimo di una lunga serie, che gettò discredito sulla città.
Il fiume cittadino era così inquinato da essere completamente privo di pesci nel tratto tra Akron e Cleveland; piuttosto che di acqua, sembrava fatto di melassa, una specie di melma di colore indistinto che scorreva lenta.


CLEVELAND NEGLI SPORT AMERICANI
Cleveland è stata una città in parte florida dal punto di vista sportivo: negli anni ’50 i leggendari Cleveland Browns dominavano il football e nel 1948 gli Indians vinsero le World Series.
Anche nello sport, non è durata: i Browns andarono a Baltimora, dove diventarono i Ravens.
Oggi c’è una squadra NFL che si chiama Cleveland Browns, ma non sono gli eredi diretti di quella gloriosa tradizione.
Cleveland è una città di premesse alle quali non c’è seguito e le sue squadre rispettano questa maledizione che aleggia su una città che è stata grande ma oggi non ha più identità.
I Browns non vincono niente dagli anni sessanta, gli Indians dal 1948.
I Cavaliers, manco a dirlo, non hanno mai vinto.
In totale, una striscia di 180 stagioni fallimentari.
Più lunga di Boston, dove i Red Sox hanno esorcizzato Babe Ruth dopo 86 anni(ma avevano i Celtics e i Patriots) e di Chicago, dove i Cubs non vincono le World Series dal 1908 (e i White Sox hanno atteso dal 1917 al 2005), ma ci sono stati i Bulls di Michael Jordan.
Combinati con il modo in cui le squadre sono state gestite, gli episodi sfortunati, le circostanze imbarazzanti, gli errori e le goffe figuracce bè forse la città più sfigata d'America, nel suo complesso.
Per quanto promettenti siano le cose o alta la scelta del draft, qualcuno riuscirà comunque a mandare tutto all'aria.


CLEVELAND CAVALIERS(NBA)
The Sbot è quello di Jordan sul la sirena in gara-5, primo turno dei playoff, Eastern Conference, 1989, considerato l'inizio della sua dinastia: a 3" dalla fine i Cavaliere erano avanti 100-99.
The Decision è quella del 2010, quando LeBron annunciò di trasferirsi a Miami, dove ha portato gli Heat a quattro finali consecutive e due titoli.
Sembrava appunto che, con LeBron James, i Cavs potessero invertire la rotta, ma è finita con tante maglie bruciate e l’ennesima delusione.
Dopo quell’addio, tuttavia, anziché scivolare nel consueto sconforto di una città che è stata grande e oggi è condannata a soccombere, il proprietario Dan Gilbert ha deciso di dare battaglia e il pubblico della Quickens Loans Arena lo ha seguito.
Se per la profezia “Cleveland vincerà un titolo prima di LeBron a Miami” non c’è stato nulla da fare, è tuttavia vero che i Cavs non si sono fermati nemmeno un secondo a languire su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, almeno apparentemente, poi come sappiamo tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.
Forse il simbolo dei nuovi Cavaliers rimane il 112-57 subito sul campo dei Los Angeles Lakers nel 2011.
Una sconfitta record, forse la pagina nera nella storia della franchigia.
Di più, al di là dell'umiliante distacco, anche i 57 segnati dalla squadra di coach Byron Scott sono il minimo di tutti i tempi(il precedente primato negativo risaliva al 25 marzo 1997: 59 punti contro San Antonio).
Già, ma cosa c'entra James nell'umiliazione del suo ex team?
Mr.James ai tempi se ne prese un indiretto merito: "Pazzesco. Il Karma ti becca sempre. Non si augura il male a qualcuno, Dio vede tutto!".
Parole scritte sulla sua pagina Twitter.
Già, perché da mesi ormai era etichettato come "traditore" dai suoi ex tifosi, che lo hanno sonoramente fischiato quando è sceso sul parquet un tempo di casa sua con la maglia degli Heat.
Venne anche attaccato dal presidente di Cleveland, Dan Gilbert.
Tutto questo livore, spiega lui nel messaggio pubblicato online, finisce per avere effetti tragici sulla squadra che visse annate da incubo.
A distanza di 2 anni, i Cavaliers si sono presentati alla preseason 2013 con ambizioni elevate.
Le cose però non andarono secondo i piani.
Facciamo uno sbalzo di 1 anno e parliamo di attualità: 2014.
Dopo i successi di LeBron James a Miami, il prescelto è ritornato a Cleveland.
L'intera città si è precipitata a ricomprare le maglie con il numero 23 dei Cavaliers, bruciate per strada quattro anni fa.


CLEVELAND INDIANS(MLB)
The Catch(la presa) è quella di Willic Mays in Gara I delle World Series 1954: agguantò una palla colpita da Vie Wertz a più di 128 metri, che ovunque sarebbe stato un fuoricampo e avrebbe portato gli Indians in vantaggio 5-2 nell'ottavo inning ma non al Polo Grounds di New York: i Giants vinsero poi la serie a zero e il guanto di Mays è esposto alla Baseball Hall Of Fame.
The Trade invece è quella che nel 1960 mandò Rocky Colavito a Detroit in cambio di Harvey Kuenn: la società voleva liberarsi di uno troppo esoso nelle richieste salariali.
Per 34 anni gli Indians non hanno vinto il titolo dell'American League.
Colavito, esterno, nativo del Bronx, ha giocato per Indians, Tigers, Kansas City Royals, White Sox e New York Yankees (sua squadra del cuore) in 13 anni di carriera nelle Majors (1955-68).
Non ha mai vinto un anello, né un pennant.
E’ stato però per 6 volte all’All Star Game giocando ben 9 volte e nel 1959 è stato il Re dei fuoricampo.
In 1841 incontri e 6503 turni in battuta, Rocky ha battuto 374 fuoricampo e 1159 RBI(punti battuti a casa) per una media battuta di .266, on base percentage di .359 e on base più slugging di .848.
I numeri migliori li ha registrati con gli Indians e i Tigers, motivo per il quale la franchigia di Cleveland lo ha incluso nella Hall Of Fame oltre al fatto che è il più amato di sempre dai tifosi di Cleveland.
Oltre che per i suoi fuoricampo, Colavito è conosciuto per la maledizione che ancora oggi pende sugli Indians.
Nel 1950 firma finalmente con i Cleveland Indians.
Gli Indians lo terranno per ben 5 anni nel proprio farm system facendolo esordire nel 1955.
E’ dal 1956 però che diventerà titolare a tutti gli effetti entrando subito nel cuore dei tifosi di Cleveland grazie ai suoi fuoricampo.
Nel ’58 batte .301 di media battuta, 41 fuoricampo e 113 RBI con una OPS di .620 la più alta per un battitore destro nell’organizzazione di Cleveland.
Nel ’59 batte 42 fuoricampo e viene scelto nell’All Star Game.
L’anno dopo, però, prima dell’opening day il General Manager degli Indians, Frank Lane, accetta uno scambio con i Detroit Tigers che offrono Harvey Kuenn, leader della classifica AVG 1959.
Se i tifosi dei Tigers sono al settimo cielo, esattamente non si può dire lo stesso dei tifosi degli Indians che si vedono privati del proprio idolo e del re dei fuoricampo.
Per difendersi, Lane (soprannominato “trader” dai tifosi vista la sua tendenza a scambiare tutti i migliori giocatori) dirà di aver scambiato un’hamburger per una bistecca.
La maledizione consiste nel fatto che gli Indians non sono stati più capaci di vincere un pennant o una World Series dall’affare Colavito.
L’ultimo pennant, infatti, risale al 1954 mentre l’ultima World Series addirittura al 1948.
Eventi che successero dopo la trade:
-Gli Indians riprendono Colavito 5 anni dopo dai Royals ma sono costretti a lasciare il lanciatore Tommy John e l’esterno Tommie Agee.
Tommy John, che fino a quel momento vinse sole due partite nelle Major, arriverà a 288 in carriera tra Los Angeles Dodgers e New York Yankees raggiungendo spesso e volentieri le World Series. Agee invece sarà il Rookie Of The Year per la stagione 1966 e vincerà con i Mets la World Series 1969.
1) La trade con i Twins che coinvolge Grant per Lee Stange e George Banks.
A 28 anni, infatti, Grant lanciatore era considerato ormai vecchio.
Aveva già vinto 67 partite in carriera ma dopo la trade ne vincerà altre 78 di cui 21 l’anno seguente la trade aiutando i Twins a vincere per la prima volta il titolo dell’American League.
2) I problemi d’alcolismo di Sam McDowell che lo costringeranno a lasciare all’età di 32 anni e i problemi psicologici dell’esterno Tony Horton, un power hitter che non sopportava lo stress di giocare nella Major League ritirandosi nel 1970 a 25 anni.
3) La fretta di far giocare il giovane lanciatore Steve Dunning seconda scelta assoluta nel draft 1970 chiamato nelle majors senza giocare nelle minor.
Lascerà il baseball 7 anni dopo, a 28 anni, con un record di 23 vittorie e 41 sconfitte.
4) La firma di Wayne Garland, partente destro degli Orioles che a 25 anni era già 20 vinte 7 perse. Dopo la firma di 2.3 milioni di dollari per 10 anni si fa male alla spalla nella prima partita dello Spring Training.
Decide di non operarsi e lanciare nonostante il dolore ma si ritirerà 5 anni dopo con un record di 55-65.
5) La trade del lanciatore Sutcliffe ai Cubs per Joe Carter e Mel Hall.
Sutcliffe, oltre a vincere un Cy Award per la NL, aiuterà i Cubs a vincere nel 1984 e 1989 il titolo della divisione est della National League.
Hall fu un buon battitore ma nulla di più mentre Carter fu scambiato con i Padres per Sandy Alomar e Carlos Baerga.
Carter verrà poi girato ai Toronto Blue Jays con i quali vincerà la World Series 1993.
6) Nel 1993, in seguito ad un incidente navale, perderanno la vita due lanciatori di rilievo: Steve Olin e Tim Crews.
Nell’incidente si salverà miracolosamente il partente Bob Ojeda mentre il rilievo Kevin Wickander si ritirerà a metà stagione a causa dell’incidente.
Tuttavia nel 1995 gli Indians, in una stagione catalizzata dallo sciopero, vinceranno 100 partite perdendone 44 con 30 partite avanti ai Royals che chiuderanno secondi.
Battono 3-0 i Red Sox nelle Division Series e successivamente 4-2 i Seattle Mariners per il Pennant dell’American League.
Nelle World Series incontreranno gli Atlanta Braves e nonostante restassero i favoriti, perderanno l’anello in sei partite.
Nel 1997 gli Indians tornano alle World Series questa volta incontrando i Florida Marlins, nati appena 5 anni prima. La serie è altalenante e va a gara 7 la quale verrà ricordata come un classico nella storia delle World Series.
Nel nono inning, con 1 out, gli Indians comandano 2-1 e sono ad un passo dal paradiso.
Josè Mesa però non sarà capace di ottenere gli ultimi due out con i Marlins che pareggiano e vincono nell’11° inning per 3-2.
Gli Indians non torneranno mai più alle World Series.
Nel 98 e 99 vincono la Central Division ma perdono le ALCS contro gli Yankees e le ALDS contro i Red Sox.
Nel 2000 falliscono l’obiettivo della Central Division ma sono ad 1 GB dalla WildCard.
Nell’ultima partita della stagione regolare una vittoria ed una sconfitta dei Mariners porteranno allo spareggio.
Gli Indians vincono ma vincono anche i Mariners che ottengono così la Wild Card.
Gli Indians chiuderanno a 92-72 con 2.5GB dietro gli Yankees vincitori della World Series.
Nel 2007 gli Indians perderanno in gara 7 contro i Red Sox al Fenway Park quando gli Indians condicevano 3-1, dopo gara 4 nelle restanti partite subiranno un totale di 30 punti con solo 5 fatti.
Nel 2009 due ex Indians, CC Sabathia per gli Yankees e Cliff Lee per i Phillies, saranno i partenti di gara 1 alle World Series.
La maledizione di Rocky Colavito quindi attende ancora di essere spezzata.


CLEVELAND BROWN(NFL)
Nella NFL i Browns non vincono niente dagli anni 60.
I Browns furono fondati nel 1946 e vinsero il titolo nella loro prima stagione nella NFL, in seguito si ripetono nel 1954, 1955 e 1964.
Dal 1965 al 1995, il club ha raggiunto i playoff 14 volte ma non ha più vinto un titolo né preso parte a un Super Bowl(entrato in vigore dal 1967).
The Drive è quello con cui il gennaio 1987, John Elway portò i Denver Broncos al touch down che pareggiò la partita per il titolo della Afe a 37" dalla fine: 98 yard in 5'2".
I Broncos vinsero nel supplementare con un calcio piazzato.
Il 6 novembre 1995, Art Modell che aveva acquistato i Browns nel 1961, annunciò il trasferimento della squadra a Baltimora, Maryland, alla fine della stagione.
I diritti sulla proprietà intellettuale dei Browns rimasero però a Cleveland per una futura squadra.
Le operazioni dei Browns furono sospese per tre stagioni.
Dal ritorno nel 1999, i Cleveland Browns hanno avuto un successo limitato, con un record di 77–163 fino alla stagione 2013 e due sole stagioni con un record positivo: 9–7 nel 2002 e 10–6 nel 2007, qualificandosi per i playoff nell'ultima occasione nel 2002, come Wild Card.


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La Maledizione Di Bobby Layne: Detroit Lions (NFL)

Bobby Layne fu un grande quarterback che giocò per i Chicago Bears, New York Bulldogs e soprattutto Detroit Lions dal 1950 al 1958.
In seguito venne ceduto e finì la sua carriera ai Pittsburgh Steelers dove si ritirò nel 1962.
Sicuramente non fu tra i primissimi di tutti i tempi ma comunque dopo 15 stagioni nella lega, si ritirò come il titolare dei record NFL per passaggi tentati (3.700), completati (1.814), yard passate (26.768) e touchdown passati (196).
Il pericoloso stile di vita di Layne, che continuò imperterrito, anche dopo la sua stellare carriera NFL, a frequentare postacci maleodoranti e pieni di “donnine” ed alcool, lo portarono ad una prematura morte a soli 60 anni, il 1° Dicembre 1986.


LA MALEDIZIONE DI BOBBY LAYNE E I DETROIT LIONS
Oltre che per i record succitati prima, Layne è noto per una famosa maledizione.
Maledizioni che sappiamo infestano gli sport americani(soprattutto NFL e MLB).
Layne portò Detroit al loro massimo splendore, vincendo 3 titoli NFL, andando al Pro Bowl 5 volte e fu in seguito eletto nella NFL All Team degli anni 50 entrando nel 1967 nella Hall Of Fame.
Bobby Layne e i Detroit Lions erano l'esatto opposto dei loro grandi avversari dell’epoca, i Cleveland Browns di Paul Brown e il fenomenale quarterback Otto Graham.
Tanto disciplinati erano i Browns (grazie al ferreo regime di Paul Brown), quanto indisciplinati, violenti e “scorretti” erano i Lions.
Un uomo di linea dei Lions una volta affermò che durante l’Huddle l’odore dell’alcool emanato dai suoi colleghi era tale da doversi tappare il naso.
I Lions e Browns diedero vita a scontri epici, dominando gli anni 50: Detroit vinse il titolo nel 1952, 1953 e 1957, mentre Cleveland vinse nel 1950, 1954 e 1955.
Successe però che nel 1958 Layne venne ceduto ai Pittsburgh Steelers, senza apparenti motivi.
Forse non credevano più in lui.
Layne non la prese benissimo e disse la seguente frase:” I Lions non vinceranno più nulla per 50 anni!”.
E considerando il fatto che ai tempi si parlava di una delle squadre più forti dell’NFL non era una profezia da poco o banale.
Ovviamente nessuno prese sul serio la frase, ma così fu.
Nei 50 anni successivi i Lions non riuscirono più a fregiarsi del titolo di Campioni NFL, accumularono il peggior record tra tutte le squadre, andarono ai playoff solo 10 volte, la cui unica vittoria risale al lontano 1991 contro i Cowboys e mandarono soltanto 1 quarterback al ProBowl.
Sono una delle sole due franchigie presenti nella NFL dal 1970 a non aver mai disputato un Super Bowl (l'altra sono i Cleveland Browns).
Nell'ultimo anno di questa "maledizione", il 2008, Detroit chiuse la stagione con un record di zero vittorie e 16 sconfitte, l'unica franchigia della storia a chiudere una stagione da 16 gare senza vittorie.
Nel draft dell'anno seguente(2009), i Detroit Lions scelgono con il primo pick assoluto Matthew Stafford, quarterback da Georgia.
Perché Stafford? Forse perché viene dalla stessa High School di Bobby Layne?


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martedì 9 settembre 2014

La Storia Di Tony Adams (Alcool)

Tony Adams, il roccioso difensore che per quasi un ventennio difese i colori dell’ Arsenal, che con la maglia dei Gunners soltanto in Premier League totalizzò 504 presenze e che fu a lungo capitano della nazionale inglese, con la quale scese in campo 66 volte.
Stopper ruvido e tostissimo di scuola anglosassone: 4 Premier League, 3 Coppe d’Inghilterra, 2 Coppe di Lega, 3 Charity Shield e una Coppa delle Coppe.
L’ idillio tra Tony (nato ad Havering il 10 ottobre 1966) e i Gunners ebbe inizio nel 1980, anno in cui entrò a far parte delle giovanili.
L’ esordio arrivò nell’ 83 contro il Sunderland e nelle stagioni successive vedendolo giganteggiare al centro della difesa ed apprezzandone carisma e personalità da leader, George Graham nel 1988 lo elesse capitano.
Cominciarono ad arrivare i successi, nell’ 87  l’Arsenal conquistò la coppa di lega, poi arrivarono due titoli vinti nell’ 89 e nel 91 ed Adams entrò in pianta stabile a far parte del giro della nazionale.
Insomma la carriera di Tony stava spiccando il volo, ma all’ improvviso, il lato oscuro della sua personalità prese il sopravvento.

Tony non sorridi più quando giochi” Il padre di Adams durante il periodo buio


L'ALCOL E LA PRIGIONE
I primi guai con l’alcool risalgono a fine anni ’80: risse nei nightclub, incidenti automobilistici, brevi periodi di prigione.
Perde la nazionale e i mondiali di Italia ‘90.
Perde il sorriso semplice da ragazzone duro e si isola nella sua dipendenza.
Nel 91 fu arrestato per guida in stato di ebbrezza e trascorse 58 giorni in prigione, in quel periodo la moglie si stava disintossicando dalla droga e Tony cominciò a bere, sempre di più.
Nella sua biografia ammise: “bevevo per festeggiare i successi e per smaltire le delusioni, insomma bevevo sempre”, poi raccontò dell’ incidente a 180 all’ora la sera dell’arresto, della caduta dalle scale che gli costò 29 punti di sutura in testa, del sesso a pagamento e della pipì a letto.
Arrivò persino a scendere in campo ubriaco, durante la stagione 93/94.
Personalità contrastante quella di Adams: il calciatore era forte, deciso, guidava la difesa e rispondeva agli insulti dei tifosi avversari con determinazione e sicurezza nei propri mezzi, l’ uomo invece era estremamente fragile e insicuro, tanto da ammettere “in quel periodo mi sentivo un padre fallito (ha 3 figli), un marito abbandonato, pensavo di essere più forte di mia moglie, invece ero più tossico di lei” e tentava di supplire al disagio interiore attaccandosi alla bottiglia.
Riguardo gli allenamenti dopo le sbornie disse:
Negli allenamenti che seguivano una sbronza, mi mettevo un doppio strato di indumenti, sudavo tutto quello che avevo bevuto e riuscivo ad andare avanti. Gli allenamenti mi davano la possibilità di fuggire da me stesso, bastava che ci si limitasse agli esercizi fisici e che Graham non tirasse fuori il pallone”.
Com'era arrivato, Adams, fino a quel punto di non-ritorno?
E' una storia lunga e difficile, che ha per fondale un' Inghilterra tra l' inizio dei Settanta e la seconda metà dei Novanta.
Da bambino, Adams aveva rivelato una precoce inclinazione panico/depressiva: al «calar della notte» cioè alle 4 del pomeriggio guardava fuori dalla finestra, sentendosi «solo e vuoto», colpito da «un' angoscia indefinita» che gli faceva «battere il cuore all' impazzata».
A scuola, più tardi, era stato uno studente «debole e a disagio»: in soggezione verso gli insegnanti, timido con le ragazze e sfottuto dai compagni.
Da adolescente cioè già da giocatore in ascesa era stato protagonista di tante bravate teppistiche (come la distruzione dei finestrini delle macchine parcheggiate), scoprendo appunto l' alcool come ansiolitico/anestetico delle sue difficoltà psicosociali.
E nel pieno della giovinezza, a 24 anni cioè ormai da nazionale affermato aveva addirittura fatto l' esperienza del carcere: 9 mesi (poi ridotti per buona condotta) da scontare a Chelmsford per aver guidato in stato di ubriachezza e aver invaso con la macchina una proprietà privata.
Qui ci si aspetterebbero pagine chiuse e disperate: invece, con le descrizioni impressionanti della cella (un buco con un secchio per pisciare) e dello spegnersi delle luci per la notte ci sono anche momenti di vitalismo felice (il caos dei 50 detenuti che si disputano il pallone) e contrappunti ironico-sarcastici («il barbiere era un fan degli Spurs, così sono uscito dal carcere coi capelli lunghi»).
Adams non incolpa nessuno di questo suo percorso problematico.
Anzi, se si esclude qualche insofferenza sacrosanta per il cinismo dei media e dei tifosi, esprime il suo debito verso chi lo ha aiutato a contrastare il proprio istinto autodistruttivo.
Verso i genitori «East Enders» della zona industriale di Stepney (una Pero londinese), il padre camionista e poi asfaltatore che ha interrotto la carriera calcistica per l' asportazione di un rene a 25 anni e che ha sempre incoraggiato il figlio. Verso l' ex moglie Jane, che anzi gli ha indicato la via del recupero risalendo lei stessa da una lunga tossicodipendenza.
Verso i suoi allenatori, che lo hanno sempre compreso (George Graham) o addirittura sorretto con un dialogo profondo e con un' assistenza medico-scientifica (Arsène Wenger).
Verso i compagni e i colleghi ancora più sfortunati.
Verso gli amici fedeli, come gli stessi Merson e Jacobs.


LA DISINTOSSICAZIONE E LA RINASCITA CALCISTICA
"Se il mondo ti ripaga nella lotta per il successo e ti fa re per un giorno, vai e guardati allo specchio, e chiedi all'uomo che vedi il suo parere. Erano le ore 17 di venerdì 16 agosto 1996: il mio ultimo goccio di alcol". 
Il fegato di svelare che dopo la semifinale dell'Europeo '96 contro i tedeschi, persa ai rigori, è stata tutta una bevuta cominciando negli spogliatoi ("A forza di lattine di Carling Black Label") e proseguita sul pullman, in albergo, nella notte e il giorno dopo, nel deserto della mattina in ritiro, l'hotel vuoto e Tony con la sua pinta in mano.
"Bevevo per festeggiare i successi e per smaltire le delusioni, dunque bevevo sempre".
Una droga, un doping esistenziale per reggere il ruolo, per darsi forza: "Il mio valore come persona era in ciò che facevo, non in ciò che ero" e in questa frase c'è tutto il dramma del campione immerso nella falsità, nel circo di plastica che pretende prestazioni, record, trionfi e in qualche modo bisogna tenersi su, e mai mostrarsi deboli, deboli mai.
Tony racconta di quando rimbalzava da un pub all'altro e sapeva a memoria i turni dei tipografi, degli idraulici, dei muratori, di tutti quelli che riuscivano a fermarsi al secondo boccale e lui invece no.
La moglie Jane si stava disintossicando dalla droga e Tony si sentiva superiore, "invece ero più tossico di lei".
Tre figli quasi dimenticati, gli infortuni da superare col bisturi e la bottiglia, la vergogna, la fatica di nascondere questa vita sempre più barcollante.
"Ricordo le otto settimane nel carcere di Chelmsford per guida in stato di ubriachezza, con l'incidente, la rovinosa caduta dalle scale di un night che mi aveva lasciato una ferita di 29 punti in testa, un conto da 5.800 sterline in un night, la pipì a letto".
Tony racconta di quando prese una ragazza per una notte d'amore senza amore, le bottigliette del minibar a terra e solo un pensiero in testa, bere ancora, bere ancora.
Poi le lacrime, la solitudine, una canzone (Black Coffee in Bed degli Squeeze) ascoltata a letto come in un delirio e ancora piangere e sudare fino a perdere litri, e con quell'espulsione era come se uscisse fuori la vita di prima, "il passato che è come un paese straniero".
Da quel paese Tony Adams è scappato da uomo, non da super eroe, aiutato da un amico che si chiama Steve Jacobs e che già aveva guidato Paul Merson, compagno di Adams, fuori dall'incubo della droga e del bicchiere.
"Alla prima riunione degli Alcolisti Anonimi dissi "mi chiamo Tony e sono un bevitore", poi tutto è stato naturale".
Uscire non solo dall'alcol ma dall'ipocrisia:
"Non sono più il calciatore Tony Adams ma il signor Tony Adams che gioca a calcio, suona il piano, fa il padre e vive".
Ora non è più il tempo in cui Tone si imbottiva di sacchetti della spesa per sudare marcio e perdere i chili "da birra", eppure lui non si sente un salvato in eterno: "Nessun alcolista lo è mai, l'importante è non ricominciare perché per noi un bicchiere è troppo e cento non sono niente".


LA RINASCITA
Qui inizia la seconda vita di Tony Adams, il capitano è di nuovo sereno, e ritrova il piacere di giocare a calcio e riconquista anche il giro della nazionale, anche grazie all’appoggio di compagni e tifosi, che anche nei momenti più bui l’hanno sempre sostenuto.
Nel 98 con l’Arsenal vince campionato ed FA Cup e in estate prende parte alla spedizione inglese ai mondiali di Francia.
Quattro anni dopo nel 2002, l’Arsenal si ripete, di nuovo campione in Premier e in FA Cup, saranno gli ultimi trofei di Tony Adams (che a fine stagione si ritirerà) con la maglia dei Gunners, con la quale alla fine disputerà 668 presenze realizzando più di 40 reti, lasciando una traccia indelebile nella storia di questo club e nel cuore dei suoi tifosi e vari spunti di riflessioni a tutti gli appassionati di questo sport e non solo.    



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sabato 6 settembre 2014

La Storia Di Vinnie Jones: Violenza, Risse ed Espulsioni

Vinnie Jones nacque a Watford nel 1965.
Ovviamente stiamo parlando di  un calciatore ma dovrei forse dire picchiatore, che ha imperversato sui campi da calcio inglesi da metà anni ottanta a metà anni novanta, senz'altro il più celebre duro, violento e pericoloso calciatore nella storia del calcio.


ESPULSIONI
Famigerato per la ferocia del suo stile di gioco, collezionò in carriera 12 espulsioni dirette e un' infinità di cartellini gialli per gioco violento e comportamento non regolamentare.
Prese più cartellini rossi di lui solo Roy Keane(13).
Detiene a tutt'oggi il record mondiale per l'ammonizione più veloce, uno stupefacente tre secondi dal fischio d'inizio, a tal proposito dichiarò:

"Devo essere stato troppo alto (col tackle), troppo feroce, troppo duro, o troppo in anticipo, perchè dopo tre secondi non potevo certo essere fottutamente in ritardo (col tackle)!"

Frase di grande sense of humor in quanto l'espulsione gli fu comminata per tackle in ritardo.


CRAZY GANG
Comincia a giocare nel Wealdstone, squadra dilettantistica periferia nord di Londra mentre lavora come portatore di mattoni in un impresa edile, una professione certo per lui più appropriata del calciatore, nonchè molto apprezzata negli ambienti edili d'oltremanica.
Nel 1986 dopo una stagione al IFK Holmsund (Serie B svedese), viene acquistato dal Wimbledon in Prima Divisione, il manager Dave Bassett spende £10.000 per lui (fu una specie di scommessa, rivelerà in seguito).
Al Wimbledon è legata un epopea straordinaria e controversa e Jones ne è stato l'incarnazione vivente nonchè il simbolo, nel 1978 furono ammessi alla Fooball league, 4° divisione e nel 1986 furono promossi in prima divisione, un'ascesa irresistibile ottenuta a suon di palloni lunghi, colpi di testa, botte da orbi, liti e polemiche su tutti i campi del regno, con l'ovvio accompagnamento di una campagna stampa a dir poco pessima.
Dati per spacciati al primo campionato di prima divisione ottennero un eclatante sesto posto, ma il meglio doveva ancora venire; ribattezzati 'Crazy Gang' per via del comportamento bizzarro tenuto in partita dai giocatori (ma anche dal presidente), Jones sale subito alla ribalta delle cronache calcistiche schiacciando le palle a Gascoigne durante la partita col Newcastle, un’immagine che rimarrà per sempre nell’iconografia calcistica classica.
La squadra si ripete l'anno successivo piazzandosi al settimo posto, e ancor più incredibilmente battendo il Liverpool in finale di FA Cup (1-0 manco a dirlo), fresca del titolo di campione d'Inghilterra appena conquistato la settimana precedente e avviata ad un sicuro double campionato coppa.

"Ci massacrarono su tv e giornali per tutta la settimana, fate schifo dicevano, sapete solo picchiare e rinviare lungo per quel paracarro di Fashanu (era vero), ma funzionò e in parecchi ci imitarono".

Prima di entrare in campo disse a Kenny Dalglish e a Ian Rush "Vi stacco la testa e poi ci cago dentro"! 

E' molto fiero del suo periodo a Wimbledon e non esita a ricordare quanto le altre squadre avessero timore ad affrontarli, specialmente quando giocavano ancora sul loro vecchio campo in Plough Lane: "quando veniva il Manchester United ostruivamo tutti gli scarichi nei loro spogliatoi, li facevamo puzzare di merda così che si ricordassero chi erano"
Quando giocavano in trasferta spalancavano la porta del loro spogliatoio e mettevano musica a tutto volume e producevano schiamazzi di ogni genere spaccando tutto per disturbare la concentrazione della squadra avversaria, Jones era il capo-banda , ad Anfield Road scrisse "Like we’re scared" (che paura abbiamo) sotto il famoso cartello ‘This is is Anfield all’ingresso del tunnel che dagli spogliatoi conduce in campo, oltraggiando la memoria e la tradizione del club!
Bruciò i vestiti di John Hartson appena arrivato in squadra (usanza tradizionale presso il Wimbledon AFC anni 80) così da costringerlo a lasciare il campo nudo.
Nel 1992 pubblicò un video dal titolo "Soccer's hard men" in cui glorificava le gesta dei peggiori picchiatori con dovizia di particolari, immagini dettagliate di infortuni raccapriccianti eccetera.
Il presidente del Wimbledon commentò "Ha il cervello di una zanzara".
Il video ebbe un buon riscontro fu il secondo più venduto nel periodo natalizio, ma causò polemiche e risentimenti a non finire.
Fu squalificato per 6 mesi e multato di £20,000 dalla federazione.
Alex Ferguson disse di lui: "Riuscirebbe a far scoppiare una rissa in una casa vuota".
Qualcuno in Inghilterra lì definì (a ragione) l'unica squadra con gli hooligans sul lato sbagliato delle recinzioni di bordo campo.


IL RESTO DELLA CARRIERA
La sua carriera proseguì poi con Leeds United, col quale vinse il campionato di seconda divisione da protagonista non solo per le malefatte, ma Wilkinson, l'unico allenatore in grado di cavarci qualcosa come calciatore non lo confermò e lo cedette allo Sheffield United dove riabbracciò il suo antico mentore Dave Bassett e divenne l'idolo incontrastato della folla nonostante gli imbarazzi in partita.
Passò quindi al Chelsea dove nel 1988 una sua entrata violentissima devastò il ginocchio di Gary Stevens il quale dopo aver recuperato non riuscì più a ripetersi agli stessi livelli (era in nazionale) e dovette scendere in seconda divisione prima di abbandonare definitivamente il calcio giocato.
Dopo un secondo periodo al Wimbledon chiuse la sua carriera di calciatore al Queen’s Park Rangers nel 1998, dove fu allenatore-giocatore per pochi mesi, non riuscendo ovviamente ad essere di esempio per i compagni di squadra abbandonò definitivamente la scena calcistica.
Collezionò 9 presenze per la nazionale Gallese, della quale fu anche capitano grazie ad un certificato di nascita (gallese) di una nonna materna.


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La Storia Di Stuart "Psycho" Pearce

Stuart Pearce, nasce a Londra nel 1962, conosciuto anche con il soprannome Psycho.
Uno che in campo aveva sempre un’espressione da guerriero, con quegli occhi che sembravano essere sempre sul punto di decollare fuori dalle orbite. Un’espressione che gli è costata appunto il soprannome di Psycho.

"Farò tutto quello che è necessario, per vincere una partita di calcio"

Pearce ha rappresentato il prototipo del difensore da Premier League, icona di un calcio fisico, al limite del regolamento. Interventi sempre al limite del regolamento, se non oltre.
Ma dentro di sè la consapevolezza di star facendo null’altro che il proprio dovere.
Icona anche di una squadra, bandiera di quel Nottingham Forest che tanto ha fatto per la storia del calcio britannico ma che oggi non se la passa poi tanto bene.
Per il Nottingham Forest, Stuart ha giocato sempre con il cuore, sempre col suo caratteristico temperamento sanguigno. D’altronde, se nasci come allievo del leggendario Brian Clough in persona, non puoi fare diversamente. Chiuderà la carriera tra Newcastle, West Ham e Manchester City, ma il suo nome resta indissolubilmente legato a quello del Forest. Stuart Pearce era un personaggio del tutto unico ed inimitabile. Un agonista come pochi se ne sono visti sulla faccia della terra.
Terminata la sua carriera da giocatore diventa selezionatore della nazionale inglese Under 21, in seguito va ad allenare il suo grande amore: il Nottingham Forest.


NAZIONALE INGLESE
Il17 Novembre 1993, Psycho entrò nella storia del calcio dalla parte sbagliata.
Siamo a Bologna, si gioca San Marino-Inghilterra, gara valevole per le qualificazioni ai Mondiali del 1994. Calcio d’inizio, San Marino perde immediatamente palla.
Stuart Pearce ne entra in possesso, retropassaggio verso Seaman. Troppo corto, si inserisce Davide Gualtieri, all’epoca 22enne puntero della nazionale di San Marino, che insacca in rete.
1-0 per San Marino, sono trascorsi 8 secondi e 33 centesimi, è il gol più veloce della storia delle qualificazioni mondiali. E a Stuart Pearce la cosa non è mai andata giù.
Anche perchè, nonostante la vittoria per 7-1 in quella partita, la nazionale dei Tre Leoni ai Mondiali non si qualificò. Nel 1996 (Europei) Inghilterra e Spagna arrivarono ai calci di rigore e sul dischetto si presenta Stuart Pearce. Wembley, il tempio del calcio, un santuario per qualsiasi suddito di sua Maestà, trattiene il fiato, a lungo.
Sui giocatori inglesi c’è il peso di una nazione intera, sulle spalle di Pearce pesa anche il rigore sbagliato nella semifinale di Italia ’90, contro la solita maledettissima Germania.
Con tutti questi pensieri in testa, Psycho si presenta sul dischetto e insacca il pallone alle spalle di Zubizarreta. Un sinistro forte, all’angolino, uno di quei rigori senza fronzoli, da difensori.
Imparabile. Stuart si ferma un attimo, si guarda intorno, e poi si lascia andare ad un’esultanza che sarà immortalata appunto in una fotografia simbolo del calcio inglese anni 90.
Un urlo liberatorio, a tutta voce. Un “come oooooon” che sembra infinito, disperato, senza fine.
Almeno quanto il successivo “fuuuuuuck!”. Pearce diventa violaceo in faccia, si gonfiano le vene, gli occhi spiritati. 



LE ACCUSE DI RAZZISMO
Un carisma che a volta andava però anche oltre i limiti: come quel famoso pomeriggio del 1994, contro lo United, quando dalla sua bocca partì la famosa “race storm”, una sequela interminabile di insulti razzisti verso il centrocampista del Manchester Paul Ince.
Un comportamento per il quale Stuart chiese poi scusa, ma che resta a imperitura memoria a far capire cosa possa passare per la testa di un giocatore in quei 90 minuti.
Quando si chiude la vena e scende in campo la parte più irrazionale di noi, forse, sotto sotto, quella più vera.
In giro, i primi anni di carriera di Pearce vengono descritti con una semplice quanto intraducibile espressione inglese: full blooded days. Giorni pieni di sangue, insomma. Giorni in cui tirare indietro la gamba era difficile. Anzi, impossibile.


IL PORTIERE DAVID JAMES SCHIERATO IN ATTACCO
Una delle idee più folli che un allenatore potesse concepire, la ebbe alla guida del Manchester City quando decise di schierare il suo portiere in attacco. Era il 2005 e il City di McManaman e Fowleer ospitava il Middlesbrough.
È una partita decisiva perché il City, in caso di vittoria, scavalcherebbe il Boro e si qualificherebbe per la Coppa Uefa.  Andare in Coppa Uefa per il City e per Pearce sarebbe un grande risultato. Lo stadio viene gelato al 23’ da una rete di Jimmy Floyd Hasselbaink. Sembra finita, ma un minuto dopo l’intervallo Kiki Musampa segna il pareggio. Serve un altro gol al City e in panchina ci sarebbe Jon Macken. Ma Pearce, sebbene sconsigliato dal suo vice, decide comunque di fare di testa sua. All’88’ minuto entra in campo Nicky Weaver, il secondo portiere: a uscire però non è James, ma il regista Reyna. Pearce, nei giorni precedenti, aveva fatto stampare una maglia da giocatore di movimento con il nome di James e il numero 1, e poi durante quel cambio surreale gliel’aveva data. L’idea era sfruttare la stazza di James per buttare palloni alti in area e "fare casino": il suo metro e 93, insieme all’effetto sorpresa, che lì per lì galvanizzò il pubblico, avrebbero dovuto fare il resto. Nella prima giocata al limite dell’area avversaria, James stoppa male il pallone, riesce in qualche modo a tenerlo in mezzo a tre avversari, ma poi non riesce a fare di meglio che rifilare un calcione negli stinchi a un difensore. 
La palla rimbalza sempre dalle sue parti. In pieno recupero arriva un cross da destra, James è nell’area piccola sul secondo palo, ma prima che il pallone gli arrivi, un difensore interviene con la mano provocando un calcio di rigore. Il folle piano di Pearce sta pagando. Sul dischetto va Fowler, che si fa bloccare il tiro da Mark Schwarzer.
Restano altre due azioni in cui James dà il peggio: sull’ultima palla che arriva a spiovente dal limite anticipa in sforbiciata un compagno di squadra lisciando il pallone, che gli ritorna sui piedi. Al secondo tentativo la palla s’impenna e lui riesce a trovolgere, con un solo calcio, due avversari. La partita finisce, il Middlesbrough si qualifica per la Coppa Uefa (dove l’anno dopo arriverà in finale, sconfitto dal Siviglia, all’epoca al suo primo successo europeo).
Pearce disse: "Se Fowler avesse segnato il rigore, quel cambio sarebbe stato visto come un colpo di genio, invece è passato per una fesseria".



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La Storia Di Paul Merson (Alcool, Depressione e Gioco D'Azzardo)

Paul Merson, classe 1968, ha sempre avuto due qualità: un talento enorme e una mente fragile.
Fin da ragazzino si mostra per essere quel tipo di giocatore che ruba la scena.
Un po’ numero 8 ed un po’ elegante seconda punta, è stato uno delle più grandi promesse del calcio britannico fin dai suoi esordi.
Assieme a David Seaman, Tony Parlour, Lee Dixon e soprattutto Tony Adams, faceva parte di quel blocco che ha guidato i Gunners attraverso quindici anni in cui tutto è cambiato.
Numero 10  per 289 volte in campionato, portò i londinesi al quel titolo del 1989 reso immortale dal celebre “Febbre a 90’” di Nick Hornby. 1
0 Gol, titolare in Under 21 e soprattutto uomo guida dell'Arsenal di George Graham.
Tutto era scritto.
Un talento, una faro nella storia del gioco e una carriera che pareva scritta.
Ma da li a poco, il cammino si sarebbe complicato e non poco.


ALCOOL, COCAINA E DEPRESSIONE
In quell’Arsenal finalmente vincente e che si sarebbe avviato ad un decennio eccitante sotto la guida di Wenger, vi era anche la realtà cupa e grottesca di una gang di alcolizzati, dove capitan Adams e Merson diedero il peggio di se.
Durante la stagione 94-95 il rendimento di Merson subisce un lievecalo, niente di trascendentale, ma quello che balza immediatamente all’occhio, è l’atteggiamento di Paul sia dentro che fuori dal campo.
Lui, conosciuto per essere tendenzialmente allegro e sorridente, appare abbattuto, il suo sguardo è triste e spento, il suo atteggiamento verso i fan e la stampa è freddo.
I tifosi e i media cominciano ad interrogarsi sul perché di tale cambiamento, a quei tempi si vociferava che la condotta di vita di Merson non fosse molto consona a quella di un atleta, ma erano solo voci di corridoio e non potevano essere riscontrate.
Ebbene, nell’autunno del ’95 è lo stesso Paul Merson a svelare l’arcano, ammette di essere entrato in depressione da circa un anno e di essere precipitato in una spirale di alcol e cocaina.
Durante la settimana partecipava a serate in discoteca fino a tarda notte e a fine serata, si tratteneva nei privè a sniffare e bere drink fino all’alba, dormiva 3 ore e poi si recava al campo.
Nella sua autobiografia intitolata “come non essere un calciatore professionista” Merson racconta di quando si recava agli allenamenti in lacrime, pentito per quanto fatto la notte prima.
E anche di quando partecipò ad una rissa negli Stati Uniti nel ’94, perché ubriaco si ritrovò in un quartiere malfamato di Los Angeles e fu salvato dalla polizia locale.
Merson perse smalto, con l’avvento del nuovo millenio divenne rapidamente l’ombra del giocatore che era.
La stampa intera lo massacra per la vita dissoluta e per i disastrosi anni in nazionale.
La fama stava svanendo, la famiglia lo aveva scaricato ai propri demoni e l’Arsenal lo avevo detronizzato dal suo 10, ceduto ora al tulipano Bergkamp.
Un giorno dell’inverno del 1994, imbottito di birra e cocaina si va a schiantare con la sua auto a 140 km/h, voleva cancellarsi dalla vita che non aveva saputo affrontare.
Farla finita una volta per tutte e chiudere quella montagna di rimpianti e delusioni che si era inflitto come atleta e uomo.
Per un caso, veramente un semplice caso ne uscì vivo.
Da li in poi,qualcosa scatta nella testa dell’uomo e comincia una lenta risalita.
Come detto, Merson si redime e si sottopone ad un drastico trattamento di disintossicazione.
In quel periodo Paul si fa forza, affronta le crisi d’astinenza, combatte la depressione e a distanza di qualche mese esce finalmente dal tunnel.
Quando torna in campo pare quello di inizio carriera, sorridente e concentrato, il suo rendimento torna quello dei tempi migliori, tanto che riconquista anche la nazionale.


IL GIOCO D'AZZARDO
Nel ’97 però, l’Arsenal opta per la sua cessione al Middlesbourgh.
Merson accetta di buon grado la destinazione, col “Boro” gioca bene, segna con buona regolarità e si fa amare subito dalla tifoseria.
Insomma tutto pare andare a meraviglia; se non fosse che a Paul piaceva frequentare determinati pub, in questi pub dopo la chiusura si organizzavano tornei di poker e altri giochi di carte e durante le partite si puntava pesante, molto pesante.
Dopo aver combattuto la dipendenza dall’alcol e quella dalla droga, Merson si infilò in un altro tunnel, quello del gioco d’azzardo, arrivando a perdere somme di denaro inenarrabili..
13mila euro sulla canzone vincitrice dell'Eurofestival, 26mila euro su una partita di NFL, 6mila e 500 euro su una di bocce e così via (dice di aver perso oltre 9 milioni di euro, solo in scommesse).
Ad un certo punto della sua vita decise addirittura di tagliarsi le mani (nel vero senso del termine) per evitare di continuare a sperperare in questo modo il suo patrimonio.
C’era anche un altro problema: al Middlesbourgh aveva preso piede la “drinking culture”, ovvero tutti i componenti della squadra, una sera a settimana e dopo ogni match si ritrovavano in un pub per bere e rafforzare lo spirito di squadra.
Ovviamente a queste riunioni Paul non partecipava, aveva paura di ricadere nell’alcool, ma per questo motivo lo spogliatoio cominciò a guardarlo con cattivo occhio, tanto da arrivare ad osteggiarlo.
Così nel gennaio del ’98, Merson decise di accettare la proposta dell’Aston Villa e si trasferì a Birmingham.
Le prime 2 stagioni ai “Villans” sono ottime, la squadra va bene e Paul gioca meravigliosamente ma nella terza stagione qualcosa si rompe, il suo rendimento cala drasticamente e l’Aston viaggia nella parte destra della classifica; a metà stagione si infortuna gravemente e il fantasma della depressione torna prepotentemente nella sua vita.


ANCORA ALCOOL E L'USCITA DAL TUNNEL
Ricade di nuovo nel tunnel dell’alcool, che ne ritarda ulteriormente il rientro in campo.
Circa un anno dopo, smaltito l‘infortunio e sottopostosi nuovamente ad una cura di disintossicazione, torna in campo nell’aprile del 2012, ma il suo rapporto col club e con la tifoseria è ormai compromesso.
Nell’estate del 2012, la dirigenza dell’Aston Villa decide di cederlo al Portsmouth, che da un paio d’anni si era stabilizzato in premier.
Dato per finito, Merson sorprende tutti sfoderando subito ottime prestazioni e contribuendo all’ottimo inizio di campionato del Portsmouth.
In un anno e mezzo disputerà 45 presenze condite da 12 reti, dopo di che si trasferisce a Walsall, dove disputa 3 stagioni prima di chiudere la carriera al Tamworth nel 2006.


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La Storia Di Robin Friday (Droga, Alcool, Furti)


"Sul campo odio tutti gli avversari. 
Non mi importa niente di nessuno. 
La gente pensa che sono pazzo, lunatico. 
Io sono un vincente" 


Robin Friday, nasce il 27 luglio 1952 ad Acton, un quartiere difficile della zona ovest di Londra.
Fin da piccolo mostra un notevole talento calcistico.
Tuttavia durante l'adolescenza fallisce vari provini per club prestigiosi di Londra quali QPR, Chelsea e Crystal Palace a causa del suo carattere selvaggio.


DROGA, ALCOOL, FURTI E PROBLEMI CON LA LEGGE
A 15 anni lascia la scuola, comincia ad assumere droghe e si mette a fare il muratore.
A 16 anni viene sorpreso dalla polizia a rubare un autoradio e finisce in carcere: qui rinforza il suo fisico e mostra tutto il suo talento calcistico nella squadra carceraria tanto da ottenere il permesso di potersi allenare con la squadra giovanile del Reading.
Scontata la pena torna ad Acton, il suo quartiere, dove conosce una ragazza di colore e la mette incinta, in seguito sposa la sua ragazza Maxine.
Il suo primo ingaggio da calciatore arriva di dilettanti del Walthamstow Avenue Football Club con anche il suo primo stipendio (10 sterline a settimana).
Il periodo nel suo nuovo club dura poco, giusto il tempo di mettere in mostra tutto il suo repertorio dentro e fuori dal campo: Robin Friday ha un enorme talento unito ad un carattere che lo porta ad essere donnaiolo, alcolista e drogato.
Difetti però che non scoraggiano l’Hayes dall'ingaggiarlo triplicandogli la paga nel 1971.


L'HAYES GIOCA IN 10, ROBIN FRIDAY DOV'E' ?
Pare che che una volta l’Hayes iniziò una partita in 10: nessuno sapeva dove si trovava Robin Friday.
Venne trovato al bar dello stadio, completamente ubriaco e quando fece il suo ingresso in campo erano già passati una decina di minuti.
È messo talmente male che gli avversari lo ignorano per tutta la partita ma pochi minuti dalla fine, approfittando della libertà che gli viene concessa, riceve un lancio in profondità e segna il gol della vittoria per la sua squadra.
In quella stagione l’Hayes avanza in Coppa d’Inghilterra fino a giocare contro il Reading: nonostante la sconfitta subita, Robin Friday si mette in mostra impressionando Charlie Hurley, manager del Reading, che lo acquista per 750 sterline.


READING
I primi allenamenti nel Reading non partono con il piede giusto: in una partitella Friday riesce a far male due o tre compagni di squadra con la sua foga agonistica, costringendo l'allenatore a farlo allenare con la squdra riserve per evitare che i veterani del gruppo si vendicano.
Hurley vorrebbe aspettare a riportarlo in prima squadra in attesa di una maturazione ma pochi mesi dopo il Reading è in una posizione di classifica delicata e non vince da mesi: un piccolo club non può permettersi di fare a meno di Robin Friday.
Il suo esordio in campionato è, secondo la stampa locale, “stupefacente” e la settimana successiva arriva anche il primo gol con i “Royals”.
Da qui comincia un crescendo incredibile: in pochissimo tempo quel ragazzo che gioca senza parastinchi, che segna gol sensazionali e che fa una vita sregolata diventa l'idolo dei tifosi del Reading.


SEMPRE PEGGIO
Tutto sembra andare per il meglio eppure i suoi demoni non lo abbandonano: fuori dal campo è sempre peggio, viene cacciato malamente da diversi locali per i suoi atteggiamenti eccessivi.
I compagni di squadra lo sopportano per via del suo enorme talento, ma alcuni iniziano ad avere malumori.
Dopo un gol al Plymouth Argylle, scavalca i cartelloni pubblicitari e strappa  di mano ad un tifoso la sua birra.
L’arbitro aspetta che Robin abbia finito e poi lo espelle senza esitazioni, sentendosi gridare contro: "Brutto s****o avevo sete, e allora?".
Inoltre sembrava fuori dal mondo, saltava gli allenamenti e durante una partita si avvicinò al pubblico per chiedere quale fosse il risultato della partita stessa.
Ormai era diventato ingestibile.
Viene trasferito in una casa vicino alla sede del club, ma non migliora, anzi Friday viene segnalato alle autorità perchè mette dischi Heavy Metal ad altissimo volume in orari notturni, spesso in preda ai deliri del LSD.
Passano così due stagioni al Reading, in cui è comunque sempre il migliore in campo, e nella terza stagione da professionista nei Royals decide di trascinare letteralmente il club alla promozione in terza divisione: un risultato inaspettato e che arriva grazie alle sue 20 reti.
Durante la festa per la promozione Robin Friday scavalca i cartelloni pubblicitari, afferra un poliziotto e lo bacia.
Su questo episodio in seguito ha dichiarato: “Lo avevo visto tutto serio, invece era un momento di festa. Ma mi sono pentito di averlo fatto, visto che odio così tanto i poliziotti”.



CARDIFF CITY E IL RITIRO A 25 ANNI
La promozione della squadra cambia Robin Friday, che nonostante sia l’idolo dei tifosi viene costretto ad andarsene dal presidente del club stufo dei suoi comportamenti: viene ceduto così al Cardiff City, una squadra di seconda divisione, che per lui offre 28.000 sterline.
In Galles si presenta subito in grande stile: viaggia in treno senza biglietto e viene arrestato appena arriva alla stazione.
L’esordio di Friday con la maglia del Cardiff avviene dopo una notte dove si dice si scoli ben dodici litri di birra: avversario è il Fulham, guidato in difesa dall’ex-pilastro della Nazionale Inglese Bobby Moore. Robin Friday lo ridicolizza, segnando due reti e "omaggiandolo" con una strizzata ai testicoli. Dopo qualche mese Friday salta numerosi allenamenti, arriva spesso alle mani con avversari e compagni di squadra e viene trovato sempre svenuto negli hotel dove la squadra va in ritiro.
Prende più volte il treno per andare e venire da Cardiff a Bristol, dove risiede, senza mai pagare il biglietto.
Robin Friday in terra gallese passa alla storia grazie ad una rete.
È il 16 Aprile del 1977.
Il Cardiff gioca in casa contro il Luton.
È una partita maschia, Robin fa di tutto per segnare andando più volte a scontrarsi con il portiere avversario finché non decide di colpirlo al volto con una scarpinata.
Viene ammonito e si scusa, porgendo la mano al rivale, ma Aleksic, questo il nome del portiere, rifiuta la stretta e fa ripartire il gioco passandola ad un difensore: ecco allora che Robin Friday insegue a tutta velocità il difensore, recupera il pallone, punta il portiere, lo mette a sedere e segna.
È un gol strepitoso, che la punta del Cardiff festeggia mostrando le dita a V al portiere rivale a terra in segno di vittoria.
La stagione successiva le cose vanno peggio sia per il Cardiff che per lo stesso Robin Friday che durante l’estate si ammala di un misterioso virus che gli fa perdere oltre 10 chili e lo tiene lontano dai campi di gioco per tre mesi.
Quando rientra l’avversario è il Brighton e il suo marcatore è lo stopper Mark Lawrenson, che non risparmia entratacce al limite del regolamento. La cosa fa innervosire talmente tanto Friday che alla prima occasione, su un intervento in scivolata del rivale, lo salta e lo colpisce in pieno volto con un calcio. Viene ovviamente espulso, ma anziché raggiungere il suo spogliatoio raggiunge quello degli avversari, cerca e trova la borsa di Lawrenson e ci fa la cacca dentro.
La misura è colma, il Cardiff in 10 e già ultimo in classifica perde 4 a 0 e Andrews, l’allenatore, lo caccia: Friday finisce fuori squadra e a fine anno annuncia il suo clamoroso ritiro.
Così la stagione 1977/78, la quinta da professionista, è l’ultima da calciatore per Robin Friday che si ritira a soli 25 anni.
Torna a casa, nella sua Londra, e viene contattato dal Brentford ma quando ha già svolto il ritiro e sembra essere in forma ci ripensa e molla tutto.
Lo contatta anche il Reading spinto da una raccolta di firme dei suoi tifosi, ma anche in questo caso declina: quando il nuovo allenatore, Maurice Evans, gli propone di mettere la testa a posto “per tre o quattro anni, così arriverai anche in Nazionale” Robin Friday risponde chiedendo l’età del manager e aggiungendo poi: “Ho la metà dei tuoi anni e ho già vissuto il doppio di te”.


LA MORTE PER OVERDOSE DI EROINA
Finisce a vivere in una casa popolare ad Acton, permanenza che intervalla con quella in prigione, dove viene spedito per essersi travestito da poliziotto ed aver sequestrato droga che naturalmente ha poi consumato lui stesso.
Il 22 dicembre del 1990 Robin Friday viene trovato morto nel suo appartamento londinese a causa di un arresto cardiaco da overdose.
Robin aveva appena 38 anni.
Friday viene eletto dai tifosi del Reading “Calciatore del Millennio”.
Se ne va con appena 3 stagioni e mezzo al Reading e una e mezzo spesa al Cardiff, senza aver mai giocato in Prima Divisione ne in Nazionale e senza aver mai vinto un trofeo.
Friday era un calciatore duro ed egoista, incapace di giocare con la squadra ma fermo nel suo proposito di puntare e saltare l’intera difesa da solo per segnare, cosa che avveniva poi anche abbastanza spesso.
Un talento frenato soltanto da se stesso.


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Storie Di Alcool e Follia: Calcio Inglese

Alcool e football, questo è il connubio.
Non sempre ma spesso.
In Inghilterra è un binomio indissolubile per tanti tifosi ma anche per qualche calciatore, che a volte esagera e finisce per rimanere coinvolto in qualche pub brawl, la “classica” rissa da eccesso di birra e superalcolici.


ANNI 60 E 70
Tutti ormai conoscono la triste storia di George Best, ucciso dalla sua passione per la bottiglia(ne ho già parlato in un articolo a parte), ma anche gente del calibro di Bobby Moore, capitano dell’Inghilterra vincitrice dei mondiali 1966 e di Jimmy Greaves, fenomenale attaccante del Tottenham che giocò anche qualche partita nel Milan di Nereo Rocco, ammise la propria condizione di alcolista.
Il più grosso problema di Jimmy Greaves in Italia aveva un nome e un cognome: Nereo Rocco.
I metodi militareschi e le regole ferree (proibito fumare, un solo bicchiere di vino ai pasti) alle quali l'allenatore faceva sottostare la sua truppa non collimano con il carattere di Greaves, sempre pronto allo scherzo e alla bevuta in compagnia.
“Gridava tutto il tempo, i giocatori erano spaventati da lui. Una volta, nel corso di un allenamento, mi scoprì al bar del campo di allenamento mentre sorseggiavo una birra e fumavo una sigaretta, e andò su tutte le furie. Un grande allenatore, ma anche un pazzo furioso”.
“A vent’anni mi facevo solo un paio di birre nel dopopartita, poi con i compagni del Tottenham avevamo costituito un vero e proprio club di bevitori: io, Dave Mackay, Bobby Smith, Cliff Jones, John White, Bill Brown, ma negli anni Sessanta e Settanta quasi tutti i giocatori in Inghilterra bevevano e finchè non eccedevi i club non ti dicevano niente, anzi ritenevano che cementasse lo spirito di squadra. Non è comunque vero che quando giocavo nel Tottenham fossi già alcolizzato, viaggiavo sempre alla media di 20-25 gol a stagione, i guai grossi iniziarono dopo”.
La parabola discendente del Tottenham comincia al termine della stagione ’66-67, quella di Greaves un paio di anni dopo, quando Nicholson prima gli toglie la maglia da titolare e poi lo cede, nel marzo del ’70, al West Ham.
“Il peggior club d’Inghilterra per chiunque aveva problema legati al bere”, commenterà Jimmy anni dopo.
“C’erano infatti Bobby Moore, re dei bevitori, quindi Frank Lampard e Harry Redknapp, bravi in egual misura con la palla tra i piedi e con un bicchiere in un mano.
Io ero una spugna, tanto che l’anno seguente avevo già perso la voglia di giocare, così decisi di appendere le scarpe al chiodo”.
“Smesso di giocare, ero diventato un mostro, vivevo solo per bere.
All’inizio i soldi non erano un problema, poi anche da quel punto di vista la situazione è cominciata a precipitare, e ciò mi deprimeva, e più ero depresso e più bevevo. Mia moglie se n’era andata, ero diventato aggressivo, provai a ritornare nel mondo del calcio giocando con club dilettanti quali Brentwood e Chelmsford, ma fu tutto inutile. Un servizio pubblicato sulla prima pagina del Sunday People nel quale venivano mostrate le condizioni in cui mi ero ridotto mi fece molto male, ma servì anche a farmi prendere definitivamente coscienza del problema. Ero malato e avevo bisogno di aiuto”. Negli ultimi vent’anni un Jimmy Greaves ripulito si è costruito una brillante carriera come editorialista per il Sun e come commentatore televisivo
Grazie al taglio scandalistico dei tabloid, negli anni Sessanta iniziarono a essere di dominio pubblico le storie sui calciatori sbevazzoni che prima rimanevano circoscritte nell’ambito degli addetti ai lavori e dei frequentatori di night club non a caso si vocifera che a cavallo tra le due guerre il grande centravanti dell’Everton e della nazionale Dixie Dean fosse uno leggermente pazzo.
Negli anni 70 anche Stan Bowles, Alan Hudson, Rodney Marsh e Frank Worthington ebbero problemi di questo tipo.
Come dimenticare la funambolica ala scozzese Jimmy Johnstone che durante un ritiro con la Scozia, una notte era così ubriaco che non si accorse che la barca su cui era salito per riprendersi dall’eccesso di alcool non fosse legata.
Per riportarlo a riva dovette intervenire la guardia costiera!
O come non ricordare quanto racconta Jock Stein proprio su di lui"Fissavo il telefono in attesa che squillasse" al che mia moglie mi chiedeva "come fai a sapere che squillerà?", poi effettivamente il telefono suonava e la frase tipo era: "Chiamiamo dal commissariato di polizia, Jimmy è qui con noi".
E che dire del pazzo londinese Robin Friday per molti il più grande talento sprecato della storia del calcio inglese, morto a 38 anni per overdose di eroina.
Uno che al principio della sua carriera, quando militava ancora nei dilettanti dell’Hayes, durante una partita improvvisamente sparì per un quarto d’ora, per poi rientrare e segnare il gol decisivo. L’assenza temporanea era dovuta ad una capatina al pub adiacente allo stadio...
A 12 anni finisce già in riformatorio mentre giocava nei Blues per aver rubato un’autoradio, nonostante tutto gli viene concesso il permesso di allenarsi con il Reading.
Alzava il dito medio al portiere, si abbassava i pantaloncini vicino agli spalti dei tifosi avversari e baciava in bocca i poliziotti a bordo campo: cresciuto fra Crystal Palace, Queens Park Rangers, Chelsea e Reading, Friday a vent’anni faceva l’operaio con due divorzi già quattro anni più tardi. “Non sopportava ricevere ordini dagli allenatori ma non prima di aver umiliato il Fulham con una doppietta da ubriaco, con tanto di tacchettata sui testicoli a Bobby Moore, capitano dei Campioni del Mondo del 1966”


ANNI 80, 90 E NUOVO MILLENNIO
Senza andare troppo lontano nel tempo altri campioni come Tony Adams e Paul Merson hanno faticato non poco per liberarsi del demone dell’alcool.
Adams ha anche scontato 56 giorni di prigione per guida in stato di ebbrezza, decidendo poi di mettere in piedi una clinica specializzata per il recupero di sportivi che hanno imboccato la strada della dipendenza da alcool, droghe o scommesse.
I nuovi metodi di allenamento e soprattutto l’uso di nutrizionisti e dietologi per salvaguardare la forma degli atleti cominciano ad avere un effetto positivo, almeno nella ricca Premier. Ma chi beve un bicchierino di troppo si pizzica sempre.
Nel 2000 sette pinte di vodka e rum e il conseguente attacco al malcapitato Sarfraz Najeib sono costate a Jonathan Woodgate una notte in cella e 100 ore di servizi sociali.
Un anno e mezzo fa, prima di un ottavo di Champions League tra Barcellona e Liverpool, il litigio alcolico tra Craig Bellamy e John Arne Riise con una mazza da golf, fece la gioia dei direttori dei giornali popolari di mezza Europa.
Il caso più eclatante di fuoriclasse dei nostri tempi rovinato da birra e whisky è ancora quello di Paul Gascoigne.
Tra marachelle e follie varie, una “gita” all’ospedale psichiatrico e un pestaggio alla povera moglie Sheryl, l’ex numero otto di Newcastle, Tottenham e Lazio non sembra proprio farcela a vincere la sua battaglia contro l’alcool.
Il giorno di Natale era atteso dai familiari per pranzo, invece si è rintanato in un hotel nei pressi del centro di recupero di Minsterworth, nel Gloucestershire, dove è in cura da tre settimane.
L’hanno ritrovato dopo tre giorni.
Solo, ubriaco e depresso per le parole del figlio dodicenne Regan, che in un documentario di prossima diffusione su Channel Four ha dichiarato: “mio padre morirà presto”.
Bere in compagnia, in passato, veniva visto come lasciapassare per essere accettati dal gruppo, per non dire branco.
O come passatempo sociale.
Emblematici i casi degli irlandesi al Manchester United: Norman Whiteside (del nord), Roy Keane, compagno di sbronze dello sciupafemmine Lee Sharpe e il nero Paul McGrath («bere mi dava coraggio»).
O per finire l'intero Leicester City cacciato da un hotel spagnolo nel 2000, Stan Collymore che picchia la compagna Ulrika Jonsson.
Shock fu anche un'intervista di Rio Ferdinand rilasciata al Guardian inerente il suo periodo nel West Ham, dal 1995 al 2000.
In questo periodo, Ferdinand, ha rivelato, faceva spesso e volentieri abuso di alcool, specialmente dopo le partite.

Rio: "Dico sempre alle persone che chiedono se ho qualche rimpianto per il gioco che non avrei bevuto alcolici. Quando ero più giovane ero un pazzo. Momenti della mia carriera di quando ero al West Ham sono confusi. La gente parla di prestazioni e risultati in determinate partite e io mi siedo e annuisco. Non ho idea di cosa stiano parlando, non ricordo"

Ai tempi del West Ham infatti, Rio poteva bere fino a 10 pinte di birra (una pinta corrisponde a circa 0.56 cl) la sera dopo la partita, per poi passare alla Vodka. Era la “cultura del bere”, molto diffusa ai tempi. Quindi oltre al calcio i professionisti, soprattutto se giovani come lui, pensavano sempre a bere e ad andare nei club per fare serata. Oggi se ne pente, perché la parte più formativa e forse più bella da ricordare a livello personale è andata praticamente persa.
Al Manchester United cambiò tutto.
Il passaggio, nel 2002, dal West Ham al Manchester United è stato decisivo per fare il primo passo verso la risoluzione del problema. Rio Ferdinand ammette infatti che, dopo il suo passaggio alla squadra allenata da Alex Ferguson, si limitava a bere alcool solo d’estate, al di fuori delle stagioni sportive.

Rio: "Mi limitavo a bere solo d’estate. Bevevo fino a scoppiare, in continuazione"

Essere una bandiera e poi il capitano del club ai tempi più forte e importante del mondo non bastò per debellare completamente il problema dell’alcolismo. Rio Ferdinand ha dovuto vivere l’esperienza sulla propria pelle, unita ad altri sconvolgenti avvenimenti familiari, per poi accorgersi realmente di ciò che aveva fatto.
Nel 2015 la moglie Rebecca muore dopo una lunga battaglia contro il cancro e questo sconvolgerà la vita di Rio Ferdinand. Appena due anni dopo anche la madre lo lascerà, sempre a causa di un cancro. Questi avvenimenti lo hanno sicuramente cambiato: "Adesso bevo un bicchiere di vino al giorno, oppure una Guinness. Avrom e il test mi hanno confermato che, nel mio caso, una moderata quantità di alcol aumenta il colesterolo buono".



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