Alcool e football, questo è il connubio.
Non sempre ma spesso.
In Inghilterra è un binomio indissolubile per tanti tifosi ma anche per qualche calciatore, che a volte esagera e finisce per rimanere coinvolto in qualche pub brawl, la “classica” rissa da eccesso di birra e superalcolici.
ANNI 60 E 70
Tutti ormai conoscono la triste storia di George Best, ucciso dalla sua passione per la bottiglia(ne ho già parlato in un articolo a parte), ma anche gente del calibro di Bobby Moore, capitano dell’Inghilterra vincitrice dei mondiali 1966 e di Jimmy Greaves, fenomenale attaccante del Tottenham che giocò anche qualche partita nel Milan di Nereo Rocco, ammise la propria condizione di alcolista.
Il più grosso problema di Jimmy Greaves in Italia aveva un nome e un cognome: Nereo Rocco.
I metodi militareschi e le regole ferree (proibito fumare, un solo bicchiere di vino ai pasti) alle quali l'allenatore faceva sottostare la sua truppa non collimano con il carattere di Greaves, sempre pronto allo scherzo e alla bevuta in compagnia.
“Gridava tutto il tempo, i giocatori erano spaventati da lui. Una volta, nel corso di un allenamento, mi scoprì al bar del campo di allenamento mentre sorseggiavo una birra e fumavo una sigaretta, e andò su tutte le furie. Un grande allenatore, ma anche un pazzo furioso”.
“A vent’anni mi facevo solo un paio di birre nel dopopartita, poi con i compagni del Tottenham avevamo costituito un vero e proprio club di bevitori: io, Dave Mackay, Bobby Smith, Cliff Jones, John White, Bill Brown, ma negli anni Sessanta e Settanta quasi tutti i giocatori in Inghilterra bevevano e finchè non eccedevi i club non ti dicevano niente, anzi ritenevano che cementasse lo spirito di squadra. Non è comunque vero che quando giocavo nel Tottenham fossi già alcolizzato, viaggiavo sempre alla media di 20-25 gol a stagione, i guai grossi iniziarono dopo”.
La parabola discendente del Tottenham comincia al termine della stagione ’66-67, quella di Greaves un paio di anni dopo, quando Nicholson prima gli toglie la maglia da titolare e poi lo cede, nel marzo del ’70, al West Ham.
“Il peggior club d’Inghilterra per chiunque aveva problema legati al bere”, commenterà Jimmy anni dopo.
“C’erano infatti Bobby Moore, re dei bevitori, quindi Frank Lampard e Harry Redknapp, bravi in egual misura con la palla tra i piedi e con un bicchiere in un mano.
Io ero una spugna, tanto che l’anno seguente avevo già perso la voglia di giocare, così decisi di appendere le scarpe al chiodo”.
“Smesso di giocare, ero diventato un mostro, vivevo solo per bere.
All’inizio i soldi non erano un problema, poi anche da quel punto di vista la situazione è cominciata a precipitare, e ciò mi deprimeva, e più ero depresso e più bevevo. Mia moglie se n’era andata, ero diventato aggressivo, provai a ritornare nel mondo del calcio giocando con club dilettanti quali Brentwood e Chelmsford, ma fu tutto inutile. Un servizio pubblicato sulla prima pagina del Sunday People nel quale venivano mostrate le condizioni in cui mi ero ridotto mi fece molto male, ma servì anche a farmi prendere definitivamente coscienza del problema. Ero malato e avevo bisogno di aiuto”. Negli ultimi vent’anni un Jimmy Greaves ripulito si è costruito una brillante carriera come editorialista per il Sun e come commentatore televisivo
Grazie al taglio scandalistico dei tabloid, negli anni Sessanta iniziarono a essere di dominio pubblico le storie sui calciatori sbevazzoni che prima rimanevano circoscritte nell’ambito degli addetti ai lavori e dei frequentatori di night club non a caso si vocifera che a cavallo tra le due guerre il grande centravanti dell’Everton e della nazionale Dixie Dean fosse uno leggermente pazzo.
Negli anni 70 anche Stan Bowles, Alan Hudson, Rodney Marsh e Frank Worthington ebbero problemi di questo tipo.
Come dimenticare la funambolica ala scozzese Jimmy Johnstone che durante un ritiro con la Scozia, una notte era così ubriaco che non si accorse che la barca su cui era salito per riprendersi dall’eccesso di alcool non fosse legata.
Per riportarlo a riva dovette intervenire la guardia costiera!
O come non ricordare quanto racconta Jock Stein proprio su di lui"Fissavo il telefono in attesa che squillasse" al che mia moglie mi chiedeva "come fai a sapere che squillerà?", poi effettivamente il telefono suonava e la frase tipo era: "Chiamiamo dal commissariato di polizia, Jimmy è qui con noi".
E che dire del pazzo londinese Robin Friday per molti il più grande talento sprecato della storia del calcio inglese, morto a 38 anni per overdose di eroina.
Uno che al principio della sua carriera, quando militava ancora nei dilettanti dell’Hayes, durante una partita improvvisamente sparì per un quarto d’ora, per poi rientrare e segnare il gol decisivo. L’assenza temporanea era dovuta ad una capatina al pub adiacente allo stadio...
A 12 anni finisce già in riformatorio mentre giocava nei Blues per aver rubato un’autoradio, nonostante tutto gli viene concesso il permesso di allenarsi con il Reading.
Alzava il dito medio al portiere, si abbassava i pantaloncini vicino agli spalti dei tifosi avversari e baciava in bocca i poliziotti a bordo campo: cresciuto fra Crystal Palace, Queens Park Rangers, Chelsea e Reading, Friday a vent’anni faceva l’operaio con due divorzi già quattro anni più tardi. “Non sopportava ricevere ordini dagli allenatori ma non prima di aver umiliato il Fulham con una doppietta da ubriaco, con tanto di tacchettata sui testicoli a Bobby Moore, capitano dei Campioni del Mondo del 1966”
ANNI 80, 90 E NUOVO MILLENNIO
Senza andare troppo lontano nel tempo altri campioni come Tony Adams e Paul Merson hanno faticato non poco per liberarsi del demone dell’alcool.
Adams ha anche scontato 56 giorni di prigione per guida in stato di ebbrezza, decidendo poi di mettere in piedi una clinica specializzata per il recupero di sportivi che hanno imboccato la strada della dipendenza da alcool, droghe o scommesse.
I nuovi metodi di allenamento e soprattutto l’uso di nutrizionisti e dietologi per salvaguardare la forma degli atleti cominciano ad avere un effetto positivo, almeno nella ricca Premier. Ma chi beve un bicchierino di troppo si pizzica sempre.
Nel 2000 sette pinte di vodka e rum e il conseguente attacco al malcapitato Sarfraz Najeib sono costate a Jonathan Woodgate una notte in cella e 100 ore di servizi sociali.
Un anno e mezzo fa, prima di un ottavo di Champions League tra Barcellona e Liverpool, il litigio alcolico tra Craig Bellamy e John Arne Riise con una mazza da golf, fece la gioia dei direttori dei giornali popolari di mezza Europa.
Il caso più eclatante di fuoriclasse dei nostri tempi rovinato da birra e whisky è ancora quello di Paul Gascoigne.
Tra marachelle e follie varie, una “gita” all’ospedale psichiatrico e un pestaggio alla povera moglie Sheryl, l’ex numero otto di Newcastle, Tottenham e Lazio non sembra proprio farcela a vincere la sua battaglia contro l’alcool.
Il giorno di Natale era atteso dai familiari per pranzo, invece si è rintanato in un hotel nei pressi del centro di recupero di Minsterworth, nel Gloucestershire, dove è in cura da tre settimane.
L’hanno ritrovato dopo tre giorni.
Solo, ubriaco e depresso per le parole del figlio dodicenne Regan, che in un documentario di prossima diffusione su Channel Four ha dichiarato: “mio padre morirà presto”.
Bere in compagnia, in passato, veniva visto come lasciapassare per essere accettati dal gruppo, per non dire branco.
O come passatempo sociale.
Emblematici i casi degli irlandesi al Manchester United: Norman Whiteside (del nord), Roy Keane, compagno di sbronze dello sciupafemmine Lee Sharpe e il nero Paul McGrath («bere mi dava coraggio»).
O per finire l'intero Leicester City cacciato da un hotel spagnolo nel 2000, Stan Collymore che picchia la compagna Ulrika Jonsson.
Shock fu anche un'intervista di Rio Ferdinand rilasciata al Guardian inerente il suo periodo nel West Ham, dal 1995 al 2000.
In questo periodo, Ferdinand, ha rivelato, faceva spesso e volentieri abuso di alcool, specialmente dopo le partite.
Rio: "Dico sempre alle persone che chiedono se ho qualche rimpianto per il gioco che non avrei bevuto alcolici. Quando ero più giovane ero un pazzo. Momenti della mia carriera di quando ero al West Ham sono confusi. La gente parla di prestazioni e risultati in determinate partite e io mi siedo e annuisco. Non ho idea di cosa stiano parlando, non ricordo"
Ai tempi del West Ham infatti, Rio poteva bere fino a 10 pinte di birra (una pinta corrisponde a circa 0.56 cl) la sera dopo la partita, per poi passare alla Vodka. Era la “cultura del bere”, molto diffusa ai tempi. Quindi oltre al calcio i professionisti, soprattutto se giovani come lui, pensavano sempre a bere e ad andare nei club per fare serata. Oggi se ne pente, perché la parte più formativa e forse più bella da ricordare a livello personale è andata praticamente persa.
Al Manchester United cambiò tutto.
Il passaggio, nel 2002, dal West Ham al Manchester United è stato decisivo per fare il primo passo verso la risoluzione del problema. Rio Ferdinand ammette infatti che, dopo il suo passaggio alla squadra allenata da Alex Ferguson, si limitava a bere alcool solo d’estate, al di fuori delle stagioni sportive.
Rio: "Mi limitavo a bere solo d’estate. Bevevo fino a scoppiare, in continuazione"
Essere una bandiera e poi il capitano del club ai tempi più forte e importante del mondo non bastò per debellare completamente il problema dell’alcolismo. Rio Ferdinand ha dovuto vivere l’esperienza sulla propria pelle, unita ad altri sconvolgenti avvenimenti familiari, per poi accorgersi realmente di ciò che aveva fatto.
Nel 2015 la moglie Rebecca muore dopo una lunga battaglia contro il cancro e questo sconvolgerà la vita di Rio Ferdinand. Appena due anni dopo anche la madre lo lascerà, sempre a causa di un cancro. Questi avvenimenti lo hanno sicuramente cambiato: "Adesso bevo un bicchiere di vino al giorno, oppure una Guinness. Avrom e il test mi hanno confermato che, nel mio caso, una moderata quantità di alcol aumenta il colesterolo buono".
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