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mercoledì 29 aprile 2015

La Volvo Ocean Race, Capo Horn e I Pirati

La Volvo Ocean Race è considerata come il più importante evento velico oceanico al mondo, si basa sul motto “nulla è grande e facile”: è un’eccezionale prova di marineria, costruita sullo spirito degli abili navigatori del passato, uomini senza paura che  solcavano gli oceani del pianeta più di un secolo fa e il cui valore si ritrova negli equipaggi di oggi.
Un mix unico di competizione, avventura e tecnologia dove si uniscono il fascino delle località toccate con il dramma e la resistenza dell’uomo agli elementi naturali.
Ognuno dei partecipanti ha una squadra velica composta da 11 membri d’equipaggio che possono gareggiare giorno e notte per più di 20 giorni alla volta in alcune tappe.
Ciascuno di essi assume diversi compiti a bordo della barca, e in cima a questi ruoli ci sono due marinai con formazione medica, un velaio, un ingegnere e un apposito membro dell'equipaggio dedito alle comunicazioni.


PERCORSO
Anche se il percorso è cambiato per adattarlo a vari porti di scalo, la gara parte in genere dall'Europa nel mese di ottobre, e nelle ultime edizioni ha avuto 9 o 10 tappe.
Il percorso per la gara 2008-2009 è stato modificato rispetto agli anni precedenti per includere per la prima volta scali in India ed in Asia.
Durante i nove mesi della Volvo Ocean Race 2011-12, le squadre hanno regatato le oltre 39.000 miglia nei più pericolosi mari del mondo, toccando Città del Capo, Abu Dhabi, Sanya, Auckland, passando da Capo Horn a Itajai, Miami, Lisbona e Lorient.


LA NASCITA
La “leggenda” vuole che tutto sia nato davanti una birra, su un bancone di un pub di Portsmouth.
Nel 1969 Robin Knox-Johnston vinse il Sunday Times Golden Globe Race entrando nella storia della vela: è stato il primo uomo a compiere una circumnavigazione in solitario del pianeta.
Pare che proprio la sua impresa colpì due personaggi chiave per la Volvo Ocean Race, Guy Pierce e Anthony Churchill, noti per le loro imprese in solitario e considerati i “padri” di questa competizione, convinti del potenziale di una regata simile a quella di Knox-Johnston ma affrontata in equipaggio.
All’epoca non esisteva una competizione simile e cominciarono a cercare uno sponsor che appoggiasse la loro idea, finché non la illustrarono alla Royal Naval Sailing Association.
Nel 1971, in quel famoso pub di Portsmouth, il colonnello Bill Whitbread e l’ammiraglio Otto Steiner della RNSA incontrarono Pierce e Churchill e tutto ebbe inizio.


I PERICOLI DEL MARE: TEMPESTE, DISPERSI E PIRATI
La prima competizione si è disputata nel 1973 e si chiamava Whitbread Race.
Vi parteciparono 17 imbarcazioni a vele quadre con a bordo 167 velisti che l’8 settembre partirono da Solent alla volta di Città del Capo.
La maggior parte erano semplici avventurieri “paganti” o marinai con poca esperienza: solo gli skipper erano pagati e avevano l’esperienza adeguata a questo tipo di navigazione.
All’epoca, inoltre, non esistevano le tecnologie odierne ed era tutto molto più spartano, qualità che rendeva la regata ancora più avvincente perché era probabilmente l’evento sportivo più lungo, difficile e pericoloso esistente.
E il pericolo fu subito evidente, visto che proprio in quella prima edizione tre velisti scomparsero in mare durante tempeste terribili.
Naturalmente ci fu chi subito chiese che la regata non venisse mai più ripetuta, ma il desiderio di avventura e di competizione ebbe la meglio e l’evento continuò ad esistere e a svolgersi ogni quattro anni.
Per oltre un trentennio la regata ha prodotto incredibili campioni, uno fra tutti il leggendario Peter Blake, lo skipper neozelandese che fu tragicamente assassinato dai pirati durante una missione di ricerca sul Rio delle Amazzoni, nel 2001.
I pirati gli spararono, uccidendolo, a bordo del suo veliero "Seamaster".
Ai tempi Sir Peter Blake, aveva 53 anni ed era stato il navigatore neozelandese del Team New Zealand vittorioso nelle due ultime Amarica's Cup, skipper nel 1995 a San Diego e presidente del team nel 2000 a Auckland.
La polizia brasiliana spiegò che a compiere l'omicidio era stato un gruppo di pirati conosciuti nella regione come "ratos da agua", topi di fiume: armati e mascherati sono saliti a bordo del veliero di soppiatto, di notte. La rapina è finita con una sparatoria.
Due membri dell'equipaggio di Blake sono stati feriti in modo serio e trasportati in ospedale.
Sempre secondo la polizia Blake ha reagito.
E' stato ucciso sul colpo.
I "topi di fiume" sono poi fuggiti rubando il motore del veliero e un orologio.
Nella prima edizione della Whitbread, Blake era imbarcato su Burton Cutter, ma fu solo in occasione della sesta edizione che fu incoronato come il campione più grande grazie alla vittoria in tutte le sei tappe dell’evento con Steinlager 2 (1989).
Altri nomi che hanno fatto la storia del giro del mondo, e della vela in generale, e che hanno partecipato alla “grande sfida” sono Dennis Conner, Paul Cayard, Chris Dickson, Eric Tabarly e Grant Dalton.
Nel tempo sono cambiate diverse cose.
Nel 2001-2002 il marchio Volvo acquistò l’evento, che fu ribattezzato Volvo Ocean Race, e portò una nuova forma di professionalità e un ruolo sempre più rilevante della vela come veicolo promozionale.
Gli equipaggi sono composti da 11 velisti professionisti (molti dei quali olimpici), la cui abilità, resistenza fisica e spirito agonistico vengono messi alla prova notte e giorno per oltre 30 giorni, in alcune delle tappe.
A bordo sono stati introdotti GPS, dissalatori e vari comfort nelle cabine e nella cambusa.
Nel 2008-09 l’evento è stato seguito in televisione da un miliardo e 300 milioni di persone.
La Volvo Ocean Race 2011-12 è stata l’11a edizione dell’evento, partita dal porto spagnolo di Alicante per finire a Galway, in Irlanda, nel luglio 2012.
Nel 2015 in corso la nuova edizione.


RACE CONTROL
Il cuore tecnologico della regata è il Race Control, ad Alicante, che ha tre scopi principali: la sicurezza delle barche, la gestione dei dati di posizionamento e la comunicazione con gli equipaggi, inclusa la trasmissione di una imponente massa di dati che vanno dalle e-mail personali, alle immagini fotografiche, testi, audio e video.
Quando la flotta è in navigazione, un gruppo di “ufficiali” gestisce l’operatività del Race Control costituendo il primo punto di contatto con le barche.
In eventuali situazioni critiche, il loro compito è quello di contattare il personale medico, il ceo della regata, il direttore e il servizio di soccorso in mare, il Rescue Coordination Centre, di Falmouth, nel Regno Unito.
Gli ufficiali monitorano e comunicano con la flotta attraverso uno speciale sistema detto Race Management System (RMS), mentre un enorme schermo mostra le immagini fotografiche e video provenienti dalle barche e un race tracker (sistema di posizionamento) ne indica la posizioni su una carta Google Earth.
Il centro ha otto posizioni di controllo, ognuna delle quali riporta dati differenti: meteo, posizione, temperatura dell’acqua, altezza delle onde etc.
Il monitoraggio della flotta è reso possibile dalla tecnologia satellitare.
Ogni barca è dotata di due unità di tracking, una collegata all’impianto elettrico (batteria/motore) usata come back up e in caso d’emergenza, e una portatile che può essere eventualmente utilizzata sulla zattera di salvataggio.
Nel caso in cui gli ufficiali di guardia non ricevano la posizione, questo sistema secondario può essere usato con una frequenza che va dall’ora fino a cinque minuti, per la gestione della crisi.
Grazie alla tecnologia satellitare, la flotta è in grado di connettersi al server della Volvo Ocean Race per scaricare le previsioni due volte al giorno.
I file contengono mappe e diagrammi meteo, immagini satellitari della copertura nuvolosa, mappe isobariche, del vento e dei fronti.
Gli equipaggi possono utilizzare tali dati con i software di navigazione che permettono loro di comparare e avere conferma delle situazioni meteo con le previsioni.
Il Race Control funziona anche da tramite fra il media team e la flotta, su ognuno degli scafi è infatti imbarcato un componente dell’equipaggio (media crew member) responsabile di produrre immagini foto e video della vita di bordo e di inviarle a terra.


OCEANO PACIFICO E TEMPERATURE
Le temperature scendono, compaiono coperte, a bordo si effettuano ispezioni approfondite ad albero e sartiame e si mettono in sicurezza gli effetti personali in vista del deteriorarsi delle condizioni meteo.
Segnali che richiamano il profondo sud, ma prima, per gli equipaggi, l’imperativo è stare concentrati sul raggiungimento del cancello posto a 36 gradi di latitudine sud, primo mark della frazione che assegnerà punti pesanti ai fini della classifica generale.
Wouter Verbraak, navigatore di Green Dragon: “Mi fa piacere vedere che tutti stanno prendendo sul serio l’aspetto sicurezza: dentro noi c’è ancora il ricordo della morte di Hans Horrevoets, finito in mare nel corso dell’ultima Volvo da bordo di ABN Amro Two.
Guillermo Altadill ha esortato tutti ad indossare le cinture di sicurezza, ricordando che il salvagente garantisce solo di poter galleggiare anche da morti.
Alle velocità raggiunte da queste barche, non c’è tempo per tornare indietro prima che l’ipotermia abbia completato il suo lavoro. E’ una realtà da tenere bene a mente”.


OCEANO INDIANO E RISCHIO PIRATI
Gli organizzatori della regata avevano annunciato nell' agosto 2011 che il percorso della seconda e terza tappa sarebbe stato ridisegnato a causa dell’aumentato rischio di attacchi di pirateria nell’Oceano Indiano(vicino la Somalia).
A pochi giorni dalla partenza della seconda tappa da Città del Capo, Jack Lloyd (direttore di regata) rese pubbliche parti del piano.
Le misure di sicurezza furono molto severe: la prima prevedeva una zona di esclusione che non permetteva alle barche di navigare in acque pericolose; la seconda prevedeva che gli scafi si dirigessero verso un porto sicuro per essere caricati su una nave che li ha trasportati verso la costa settentrionale degli Emirati, seguendo una rotta il più possibile sicura.
Da quella località, le barche hanno navigato in regata fino ad Abu Dhabi, con una prova sprint.
Per la terza tappa si ripete il processo ma in maniera inversa, le barche partono da Abu Dhabi e sono poi caricate su una nave per raggiungere un porto sicuro e di lì riprendono la terza tappa con destinazione Sanya, in Cina.


LO SVILUPPO DELLA PIRATERIA NELL'OCEANO INDIANO
La pirateria soprattutto nelle zone della Somalia e dell'Indonesia si sviluppò nei primi anni 90.
Per contrastare questa minaccia è stata creata una task force navale internazionale denominata Combined Task Force 150, che si assume il compito di contrastare militarmente l'azione dei pirati.
Nel 2006 si registrò un lieve calo della pirateria in seguito all'attività dell'Unione delle Corti Islamiche. Tuttavia in seguito alla guerra in Somalia, sempre nel 2006 c'è stato un ulteriore incremento degli attacchi.
Nel maggio 2008 i guerriglieri islamici che si oppongono al Governo Federale di Transizione somalo hanno attaccato i pirati.
Nel giugno 2008 il governo somalo ha inviato una lettera con la quale richiedeva l'aiuto della comunità internazionale nell'affrontare atti di pirateria contro le navi che passano al largo delle coste somale.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato varie risoluzioni sulla pirateria somala, tramite le quali viene consentito alle nazioni che hanno preso accordi con il governo federale transitorio somalo, di entrare nelle acque territoriali somale per inseguire i pirati.
La Russia nel settembre 2008 ha annunciato di voler contribuire allo sforzo internazionale nella lotta contro la pirateria.
Nonostante il grande dispiegamento di forze da parte delle varie marine nazionali interessate, il fenomeno nel 2009 si è spostato verso le acque più profonde, minacciando navi a centinaia di km al largo delle coste somale.
Il 25 aprile 2009 al largo delle coste somale un'imbarcazione di pirati tenta di abbordare una nave da crociera italiana, la MSC Melody, con 991 passeggeri a bordo, ma il comandante Ciro Pinto riesce con delle manovre evasive a sfuggire, nonostante i pirati sparino con i Kalašnikov.
Nel 2010 un cargo con bandiera panamense ma con proprietà negli Emirati Arabi Uniti hanno reagito con successo ad un attacco e successivamente allertato una nave di pattuglia nella zona, il cui elicottero ha trovato l'imbarcazione attaccante con sette uomini a bordo, uno dei quali ucciso dal fuoco di armi leggere.
L'8 febbraio 2011 la petroliera italiana Savina Caylin da 105.000 t è stata sequestrata da pirati somali 500 miglia al largo delle coste africane, a metà strada con la costa indiana.
La nave è stata rilasciata solo a fine dicembre 2011.
Il 27 dicembre è stata sequestrata la nave Enrico Ievoli.
Altro attacco il 15 gennaio 2012 alla cisterna italiana Valdarno, sventato da una squadra della Marina Militare italiana dopo che l'equipaggio aveva dato l'allarme via radio e si era rifugiato nella cittadella (il locale blindato della nave) in attesa dei soccorsi.
Nell'incidente del 15 febbraio 2012, a circa 20 miglia nautiche dalla costa dell'India meridionale, nello Stato di Kerala, il distaccamento di protezione naviglio (DPN) a bordo della petroliera NM Enrica Lexie ritiene di aver sventato un tentativo di abbordaggio, sparando e mettendo in fuga un battello avvicinatosi alla nave.
L'attacco tipico dei pirati somali mostra che, anche se gli attacchi possono avvenire in qualsiasi momento, la maggior parte di essi si verifica durante il giorno, spesso nelle prime ore.
L'attacco inizia con piccole ed agili barche che possono raggiungere una velocità massima di 25 nodi.
Con l'aiuto di imbarcazioni d'appoggio, che includono barche da pesca e imbarcazioni mercantili precedentemente catturate, il raggio di azione dei pirati è aumentato di gran lunga fino ad estendersi all'Oceano Indiano.
Nel 2011, su 437 incidenti in cui erano coinvolti pirati (abbordaggi, dirottamenti e spari contro navi mercantili) 257 avvennero a largo delle coste della Somalia.
Nel 2013, nelle stesse acque, ci sono stati soltanto 11 incidenti (mentre sono stati 216 in tutto il mondo).
Secondo il Dipartimento di Stato americano, che ha una divisione che si occupa in modo specifico della lotta alla pirateria, ci sono diverse ragioni per spiegare la diminuizione degli attacchi da parte della pirateria somala.
La prima: le società di navigazione hanno cominciato ad adottare varie pratiche per proteggere le loro navi dagli attacchi dei pirati.
Manovre ad alta velocità, in modo da generare onde così alte da danneggiare le imbarcazioni inseguitrici, idranti posizionati intorno alla nave che sparano getti in grado di affondare piccole imbarcazioni.
Oppure: aree della nave sigillate e impenetrabili, dove l’equipaggio può ritirarsi, dopo aver spento i motori, in attesa che arrivino i soccorsi.
Alcune società hanno anche dotato le navi di una scorta armata: una misura che protegge dai pirati con molta efficacia.
La seconda: il grande dispiegamento di navi da guerra lungo le coste somale da parte delle marine di 25 paesi diversi.
La terza: l’approccio sempre più deciso con cui i vari governi hanno perseguito i pirati una volta arrestati che spesso in passato veniva rilasciati subito dopo l’arresto per via di una serie di complicazioni del diritto marittimo.
Comunque generalmente una nave attaccata viene affrontata di fianco e sono usate armi di piccolo calibro per intimidire l'operatore di macchina affinché rallenti e consenta l'attracco.
Vengono utilizzate scale pieghevoli per salire a bordo, poi i pirati cercano di ottenere il controllo del ponte per prendere il controllo operativo della nave.


MARE PERICOLOSI
I tratti di mare pericolosi per la navigazione sono tanti in tutto il mondo.
Alcuni Oceani sono rinomati per le violente e frequenti tempeste ma ci sono almeno quattro punti critici, rinomati in tutto il mondo e fin dall’antichità.


CAPO HORN
Capo Horn (in spagnolo Cabo de Hornos) viene indicato convenzionalmente come il punto più meridionale del Sudamerica.
Situato nell'arcipelago della Terra del Fuoco, nell'isola detta di capo Horn, non è in realtà il punto più meridionale del Sud America continentale che è rappresentato invece da Capo Froward.
A circa 100 km a sud-ovest di Capo Horn si trovano poi le piccole Isole Diego Ramirez, anch'esse considerate uno dei punti più a meridione del'America del sud.
Venne doppiato per la prima volta dagli europei il 26 gennaio 1616.
A scoprirla, nel 1616, furono due coraggiosi marinai olandesi, Schouten e Le Maire i quali non potevano raggiungere il Pacifico attraverso lo stretto di Magellano, scoperto quasi un secolo prima, perchè questo era riservato solo alle navi della Compagnia delle Indie.
Così prima di partire da Hoorn, la loro città natale da cui il nome dato all'isola e inglesizzato successivamente togliendo una o, le autorità dissero loro:
"Cari giovanotti, se scoprite una nuova rotta per andare nel Pacifico, allora potete commerciare liberamente, altrimenti...".
Altrimenti la galera perchè a quell' epoca nessuno poteva sfidare la Onorevole Compagnia, più potente di tutte le multinazionali di oggi messe insieme.
E galera fu perchè quando la loro nave arrivò nell' attuale Indonesia, Le Maire era misteriosamente morto e Schouten fu arrestato, mandato ad Amsterdam in catene e solo qualche anno dopo riabilitato.
Nessuno aveva creduto alla sua scoperta.
Comunque dal Capo si può scegliere di passare in mare aperto, dal canale di Drake, oppure nello Stretto di Magellano, attraverso le isole della Terra del Fuoco, che però offrono un passaggio lento e ricco di insidie.
In ogni caso Capo Horn va affrontato nella stagione estiva, quando le giornate durano circa 20 ore e le temperature sono un po meno proibitive.
Capo Horn è noto per le spesso avverse condizioni climatiche che rendono difficile il doppiarlo con imbarcazioni a vela.
Le acque aperte del Canale di Drake, a sud del capo, offrono ampi spazi di manovra, mentre lo stretto di Magellano, attraverso le isole della Terra del Fuoco, può offrire un passaggio lento e difficoltoso.
Il capo si trova nelle acque territoriali del Cile e la Marina di quel paese è rappresentata dal guardiano del faro che vi abita con la famiglia e che sovrintende la zona.
Il terreno è completamente privo di alberi, anche se la vegetazione è comunque presente grazie alle frequenti precipitazioni (il capo è spesso avvolto nella foschia e nella nebbia, essendo il tasso d'umidità dell'atmosfera sempre compreso tra il 70 % ed il 95 %).
Il motivo delle violenti tempeste che si infrangono su Capo Horn risiede nella costante presenza di vento da Ovest, che corre lungo l’Oceano australe, unita ad un repentino abbassamento della profondità del mare. Nello stretto di Drake il fondale passa improvvisamente da 4.000 m ad appena 100 m e questo causa la formazione di onde estremamente violente.
Questa impressionante differenza di profondità marina, unitamente alla forza dei venti circumpolari crea onde che spesso hanno il carattere della micidiale onda anomala, ragion per cui Capo Horn è considerato un "cimitero di navi".
Sotto capo Horn lo schiacciamento dovuto al basso fondale accorcia la lunghezza e aumenta l' altezza dell' onda con effetti disastrosi dovuti al rotolamento delle creste.
Non per niente ai timonieri delle navi impegnate a Capo Horn si ordinava di non guardare mai indietro. Come avrete capito, se le onde e i venti vanno da ovest a est, quella è anche la direzione più facile (si fa per dire!) in cui navigare.
Per chi invece vuole andare dall'Atlantico al Pacifico, Capo Horn può rivelarsi impossibile.
La navigazione controvento in quelle condizioni è una sfida mortale.
Questa è una delle ragioni per cui dopo la scoperta, Capo Horn fu poco frequentato dai velieri dei secoli passati.
L' ammiraglio inglese Lord Anson partito con otto navi nel 1741 arrivò nel Pacifico con tre soli vascelli perdendo un migliaio di uomini.
Capo Horn diventò celebre e frequentato solo verso la metà del secolo scorso quando la scoperta dell' oro in California spinse moltissimi velieri su quella rotta che era anche l' unica per collegare le due coste degli Stati Uniti.
Molti emigranti raggiunsero San Francisco ma molti altri riposano sotto Capo Horn.
Il primo yacht a vela a doppiare il capo è stato nel 1911 il Pandora di 11 metri dell' australiano Smeeton che però naufragò subito dopo e insieme ai sui tre compagni di sventura venne ripescato da una nave al largo delle Falkland.
Il primo navigatore solitario cui riuscì l' impresa fu invece l' argentino Vito Dumas che vi passò nel 1943 con una barca di appena nove metri.
I suoi venti terribili, soffiano tra i 160 km/h ed i 220 km/h e la grande massa d'acqua che vi confluisce fa scontrare le correnti atlantiche con quelle pacifiche.
I forti venti sono dovuti alle correnti d'aria da Ovest che corrono lungo l'Oceano australe, che poi colpiscono la catena delle Ande in Cile e sono forzate ad accelerare intorno a capo Horn, una roccia dalla forma semilunare ben definita, che cresce a picco dalle acque gelide, in altezza, avvicinandovisi progressivamente.
Esso segna il confine Nord del Passaggio di Drake, un braccio di mare tra Antartide e Terra del Fuoco, largo 440 miglia nautiche (quasi 815 km) che si abbassa drasticamente di profondità, così da creare un varco stretto tra il Sud America e l'Antartide.
I venti, come detto, sono spesso accompagnati da onde spaventose, che qui diventano ancora più impressionanti per la grande estensione dell'Oceano del Sud, che spesso è spinta da un regime di venti da Ovest a forzare attraverso il Passaggio di Drake.
La Marina ha registrato qui onde con altezze superiori ai 20 metri e non sono rari gli iceberg alla deriva.
La temperatura dell'aria è di 12 °C in estate (a gennaio) e di - 5 °C in inverno (a luglio).
La temperatura dell'acqua, invece, è sempre prossima allo zero.


PASSAGGIO A NORD-OVEST
Il leggendario Passaggio a Nord-Ovest è una rotta di circa 5.000 miglia, che va dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, attraversando l’arcipelago artico del Canada.
I primi tentativi di esplorazione risalgono al XV-XX secolo, quando gli europei iniziarono a cercare possibili rotte commerciali.
Il primo a completare il passaggio (in tre anni) fu il norvegese Roald Amundsen con un ex-peschereccio di 47 tonnellate.
Il passaggio a Nord-Ovest, una volta considerato quasi impossibile, si sta in realtà aprendo progressivamente per effetto del surriscaldamento globale.
I ghiacci si sono ritirati di diversi km, tanto da aprire la via anche alle grandi navi commerciali.
Nonostante ciò, resta uno dei tratti di mare più pericolosi da percorrere, a causa della costante presenza di ghiacci, che possono ancora bloccare il passaggio in ogni momento.


CAPO DI BUONA SPERANZA
Il Capo Di Buona Speranza, estremità meridionale del continente Africano, è un altro dei leggendari tratti di mare più pericolosi al mondo.
In realtà il punto più a sud e il punto d’incontro tra le acque del Oceano Atlantico e dell’Oceano Indiano sarebbe Capo Agulhas ma, chissà per quale motivo, la fama è toccata al Capo di Buona Speranza.
Il primo a doppiare questo angolo di mondo fu Bartolomeo Diaz, nel 1487, che lo chiamò “Capo tempestoso”.
Capo di Buona Speranza è infatti un altro di quei punti davvero critici per la navigazione.
Anche in questo caso si sommano l’incontro delle acque con differenti temperature e correnti, un abbassamento repentino del fondale, il forte vento da Ovest e le temperature antartiche.
Sono innumerevoli i naufragi documentati in questo tratto di mare, sia di barche da diporto che di navi commerciali.
Sicuramente conoscerete la leggenda dell’Olandese Volante, che aveva giurato di navigare in eterno pur di riuscire a doppiare il capo e che affondò ancora prima di  passarlo.


CAPO LEEUWIN
Capo Leeuwin è considerato erroneamente il punto più a sud dell’Australia e il punto d’incontro tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Glaciale Antartico.
Il nome gli fu assegnato nel 1801 dal navigatore inglese Matthew Flinderscapo, in onore del vascello olandese “Leeuwin” che per primo lo doppiò, nel 1622.
Pur non essendo il punto più meridionale dell’Australia Capo Leeuwin fa parte delle “boe” naturali, utilizzate dalla maggior parte delle regate intorno al mondo (come la Vendée Globe)
Assieme agli altri due capi nominati fa parte della fascia di latitudine dei “Quaranta ruggenti“, così denominata proprio per indicare alcuni dei tratti di mare più pericolosi al mondo.


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martedì 28 aprile 2015

La Fastnet Race e La Tragedia Del 1979

La Fastnet Race è una gara fra imbarcazioni che si disputa al largo delle coste della Gran Bretagna.
Viene disputata ogni due anni ed è lunga 608 miglia nautiche.
Il percorso inizia al largo del porto di Cowes sull'isola di Wight, raggiunge lo scoglio di Fastnet vicino alla costa di sud-ovest dell'Irlanda e girato attorno ad esso si dirige verso Plymouth passando a sud dell'isola di Scilly.
Il Trofeo assegnato al vincitore è la Fastnet Challenge Cup.
La prima edizione della Fastnet venne vinta dall'imbarcazione britannica Jolie Brise nel 1925.
La International Offshore Rule (IOR) venne introdotta nel 1973 con le imbarcazioni che iniziarono ad esibire sponsorizzazioni.
La gara si svolge sempre lungo un percorso oceanico con acque agitate e venti molto forti.
Una delle edizioni passate alla storia per la sua tragicità fu quella del 1979.


FASTNET 1979
L’importante competizione, aveva preso il via, puntualissima, alle 13:30 di due giorni prima, sabato 11 agosto.
Approfittando della bella giornata di sole, migliaia di persone erano convenute nei pressi del porto di Cowes, nell’isola di Wight, per assistere alle affascinanti procedure della partenza.
Le oltre trecento imbarcazioni iscritte costituivano un vero e proprio record e un innegabile successo organizzativo.
Oltre alle cinquantasette partecipanti all’Admiral’s Cup, al via erano infatti presenti anche una sessantina di barche di quinta classe e circa duecento scafi indipendenti.
In gara c’erano quasi tremila uomini, la maggior parte dei quali semplici appassionati.
Un numero enorme, spiegabile solo grazie alle particolari condizioni meteorologiche in cui di norma si svolgeva la regata: mare calmo, venti leggeri e temperature miti.
Così, una dopo l’altra, le sei classi in cui erano stati inseriti i regatanti, presero il via.
La favorevole corrente presente nel Solent, lo stretto canale che separa l’isola di Wight dalla terraferma, spinse in poco tempo tutti i partecipanti oltre i bianchi bastioni dei Needles e, quindi, nel canale della Manica dove, a causa di un buon vento da sud-ovest, adottarono una tranquilla e obbligata navigazione di bolina.
Ma la Fastnet Race non è mai stata una gara semplice, anzi.
Dopo aver lasciato Cowes, le barche devono infatti costeggiare le coste della Cornovaglia, attraversare il mare d’Irlanda, doppiare il Fastnet Rock e, infine, rientrare nel porto di Plymouth.
In totale poco più di seicento miglia nautiche, di cui oltre la metà in pieno Oceano.
Sullo sfondo, a completare il quadro, la possibilità di incontrare insidie ambientali di una certa pericolosità.
Come avvenne quella volta.
Due giorni dopo, infatti, a ovest della Cornovaglia, le condizioni meteo subirono svariati mutamenti, tutti concentrati in poche ore: prima la nebbia, quindi la bonaccia e il tramonto infuocato, infine il giro e il rinforzo del vento.
Dunque la Fastnet Race del 1979 è tristemente nota come la più tragica regata di tutti i tempi, segnò un punto di svolta dal punto di vista delle azioni da compiere per incrementare la sicurezza in regata.
Un’insolita tinta rossa, attraversata da lunghe striature arancioni, infiammò l’intera volta, riflettendosi sulle onde che restituivano bagliori e riflessi inconsueti.
Un tramonto vagamente inquietante, sicuramente spettacolare.
Di sera, poi, il tempo cambiò ancora: il vento, che ora soffiava a venticinque nodi, ruotò verso sud-ovest, spingendo contro gli scafi che avevano già doppiato il faro di Land’s End, in Cornovaglia, onde sempre più grandi e nuvole che non promettevano nulla di buono.
Nel tardo pomeriggio di lunedì 13 agosto 1979 il cielo cominciò ad assumere una colorazione strana.
È vero che il meteo britannico aveva escluso la possibilità di una tempesta, ma l’evidenza diceva un’altra cosa.
Tutti, anche gli skipper più esperti, pretesero allora di essere rassicurati sull’evoluzione delle condizioni del tempo.
La Guardia Costiera, contravvenendo alle regole che vietavano ogni forma di assistenza, ebbe il compito di tranquillizzare i regatanti: per quel tratto di mare la BBC, che ogni sei ore emetteva un bollettino meteorologico, aveva sì individuato un vortice di bassa pressione in rapido transito, ma aveva anche escluso precipitazioni importanti.
Il suo minimo depressionario, di 1.010 millibar, non poteva infatti costituire un rischio reale per le imbarcazioni.
Raffiche sostenute (fino a trentatré nodi), alimentate da un vento forza sei/sette, erano previste soltanto nell’area circostante il faro di Fastnet.
Condizioni sicuramente difficili, ma niente di veramente pericoloso.
La ritrovata tranquillità da parte della maggior parte dei concorrenti durò tuttavia ben poco.
Negli stessi momenti, il mare, sollecitato da un vivace vento da nord-est, iniziò ad aumentare d’intensità.
La brezza, che aveva accompagnato fino a quel mattino le imbarcazioni in gara, era solo un ricordo, così come la strana cappa di nebbia, con relativa bonaccia, che subito dopo aveva avvolto i concorrenti.
La corsa verso il Fastnet Rock, lo scoglio irlandese da sempre boa naturale di metà percorso della prestigiosa Fastnet Race, era stata fortemente rallentata.
Appena calato il buio, infatti, il vento raddoppiò velocemente di intensità, mandando fuori scala gli anemometri.
Quando, poi, i barometri di bordo registrarono un crollo verticale della pressione atmosferica, fu chiaro a tutti che la tempesta che la BBC aveva così frettolosamente escluso stava invece per scoppiare.
Le condizioni del tempo e del mare si fecero subito molto difficili, tanto da spingere molti skipper ad ammainare anche le piccole e resistenti vele tormentine, che fin dal tramonto avevano sostituito gli spinnaker, i genoa e i fiocchi issati nel pomeriggio.
Servì a poco, anzi, a posteriori questa decisione si rivelò un errore.
Privati anche della velatura più robusta, che avrebbe almeno garantito una propulsione minima, ma sufficiente per governare meglio la situazione, quasi tutti gli scafi, soprattutto i più piccoli, si trovarono ben presto in balia degli elementi.
Molti alberi maestri e timoni furono distrutti dalla forza del vento e scaraventati in mare da autentici muri d’acqua che, in qualche caso, ghermirono anche alcuni sventurati marinai.


MORTI E SUPERSTITI
Le operazioni di recupero cominciarono quella notte stessa e coinvolsero circa quattromila uomini a bordo di mezzi navali britannici, irlandesi e olandesi.
A partire dalle prime luci dell’alba di martedì, con i venti calati sotto i quaranta nodi, poterono intervenire anche alcuni elicotteri Sea King che trassero in salvo centinaia di persone.
Di quindici marinai non si ebbero invece mai più notizie.
Alla fine, delle oltre trecento imbarcazioni iscritte, se ne ritirarono centonovantaquattro, quasi tutte appartenenti alle classi inferiori, cinque affondarono e ventiquattro vennero abbandonate in mare.
Per la cronaca la gara la vinse il Tenacious, uno scafo di proprietà del miliardario Ted Turner, che all’alba di martedì aveva doppiato il Fastnet Rock sommerso da onde alte venti metri.
Il veliero americano non fu tuttavia salutato dal consueto entusiasmo riservato al vincitore.
Gli spettatori presenti all’arrivo, infatti, decisero che, quella volta, la Fastnet Race l’avrebbe vinta ogni equipaggio che sarebbe riuscito a rientrare sano e salvo a Plymouth.
Migliaia di occhi commossi rimasero così in attesa a scrutare l’orizzonte.
Al termine della regata solo 85 yacht, la maggior parte delle classi maggiori, portarono a termine la sfida che stando alla cronache dell’epoca non fu neanche stilata ufficialmente.
In totale ci furono 15 morti e ben 24 equipaggi dovettero lasciare le loro barche.
Molte colarono a picco insieme ai membri degli equipaggi, mentre otre 130 persone furono miracolosamente salvate dalla morte grazie all’eroico intervento delle squadre di soccorso inglesi e bretoni che si mobilitarono in tempo per rendere meno tragico il numero delle perdite.

La tempesta fu talmente furiosa che si registrarono onde alte anche 20/25 metri che frangendosi  sulle barche le spazzarono via.
Velocità di oltre 70 nodi (125 km/h).
Insomma condizioni da uragano tropicale, amplificate dai bassi fondali dei Western Approaches.
A registrare le perdite maggiori furonoovviamente le piccole imbarcazioni molto leggere e non certo adatte ad affrontare simili condizioni meteo marine.
Le regole IOR dell’epoca permettevano infatti la partecipazione di molti scafi dal dislocamento medio leggero e con poca stabilità iniziale così che le onde li capovolsero più volte sbattendo fuori bordo i marinai.


QUALCHE NUMERO E GLI ERRORI COMMESSI
Delle 303 barche partite, 235 rimasero nella tempesta.
In generale:
46 barche cercarono di fuggire.
26 preferirono mettersi alla cappa con la tormentina a riva(molte di queste sono state ribaltate).
86 barche ammainarono le vele, rifugiandosi all'interno.
Complessivamente 76 barche si sono capovolte e 5 sono affondate con 24 equipaggi che hanno abbandonato le barche cercando di fuggire con delle zattere(sulle imbarcazioni ormai imperversavano le onde con alberi maestri distrutti, oggetti spostati da una parte all'altra e soprattutto gelo).
Più vittime sono state riscontrate negli equipaggi che si sono messi a cappa e soprattutto tra coloro che hanno abbandonato le barche rifugiandosi sulle zattere(molte si sono capovolte, altre sono state sommerse dalle onde per la rottura delle vele con gli equipaggi che sono rimasti al gelo).
24 barche sono state trovate quasi integre, anche se vuote dagli equipaggi.
Furono 15 le vittime con 6 dispersi in mare.
Centinaia i semi-assiderati recuperati in mare, 138 invece furono recuperati dai vari elicotteri.


ABBANDONATI NELLA TEMPESTA
Molti sopravvissuti alla tempesta negli anni hanno narrato le loro disavventure in vari libri, ma tra quelli in vendita il più bello e commovente è senz’altro quello scritto da Nick Ward: “Abbandonati Nella Tempesta” Nick, insieme ad altri cinque compagni di avventura, faceva parte dell’equipaggio del Grimalkin, un quinta classe che si trovò praticamente nell’occhio del ciclone dove la pressione scese fino a 979 millibar e si sollevarono onde alte come palazzi.
In quella notte di terrore Nick Ward si risvegliò in acqua dopo aver perso coscienza.
Per sua fortuna la cintura di sicurezza resistette alla forza delle onde e si ritrovò solo sul Grimalkin con Gerry Winks che moribondo lo lasciò dopo poco averlo riportato a bordo della barca ormai completamente alla deriva.
Gli altri membri dell’equipaggio, Matt Sheahan, Mike Doyle e Dave Wheeler, se n’erano andati su una zattera convinti che i due superstiti fossero morti come il padre di Matt mai più ritrovato.
La narrazione cruda ed aspra di quei momenti prima del salvataggio, avvenuto alle 20:45 del 14 agosto, rendono questo libro unico e coinvolgente tanto che sembra quasi di rivivere i tragici eventi.
Per oltre quindici di ore, Nick Ward sopravvisse sulla barca disalberata che, per sua fortuna, non voleva affondare.
Gerry gli morì tra le braccia e lui ne raccolse le ultime parole in ricordo della moglie adorata.
Secondo quanto emerge dal testo fu proprio il cadavere di Gerry, a cui Nick Ward si aggrappò per resistere, a dargli la forza di non morire.
Per ore e ore gli parlò, s’immaginò le sue risposte, arrivo persino ad insultarlo e buttarlo fuori bordo.
Il racconto di quel folle delirio notturno è certamente la parte più angosciosa ma anche più bella del libro.


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La Storia Di Luke McCormick e Il Duplice Omicidio (Plymouth)

Luke McCormick nasce nel 1983 e nei primi anni del 2000(dal 2004 in poi) è un portiere di belle speranze del Plymouth, eletto miglior giovane del suo club per due anni consecutivi e si mormora di un suo approdo nelle nazionali giovanili inglesi.
McCormick diviene sempre più forte ed iniziano ad adocchiarle diverse squadre (tra le quali il Leicester di Holloway).


L'INCIDENTE STRADALE E IL DUPLICE OMICIDIO
La sua vita però cambia radicalmente il 7 giugno 2008 quando alla guida della sua Range Rover si scontra contro l’auto della famiglia Peak uccidendo i due bambini Arron(dieci anni) e Ben(otto) e ferendo gravemente il padre Phil.
Ad ottobre dello stesso anno arriva la sentenza del tribunale che lo condanna a 7 anni e 4 mesi di carcere.
Il giovane portiere in quel maledetto giorno era stato al matrimonio del suo compagno di squadra David Norris.
Subito dopo i festeggiamenti però aveva deciso di ripartire per la sua città natale, Coventry, per risolvere alcuni problemi coniugali con la sua fidanzata.
Inutili erano stati i tentativi di dissuasione degli amici che lo avevano pregato di fermarsi a riposare.
Luke era partito chiaramente stanco e con una concentrazione di alcool nel sangue doppia del consentito. Mentre era alla guida del suo fuoristrada è stato preso da un colpo di sonno e l’urto con la Toyota della famiglia Peak è stato fatale.
In seguito alla sentenza nel tribunale di Stoke-On-Trent la famiglia Peak si è detta soddisfatta della condanna anche se sicuramente non sarà mai sufficiente a ripagarli del vuoto lasciato dalla morte dei due bambini.
Il signor Peak ancora oggi paga il prezzo di quell’incidente essendo bloccato su una sedia a rotelle e la signora Peak fece notare che tutto sommato McCormick fra tre anni e mezzo sarà fuori con la condizionale mentre i suoi figli non torneranno mai più in vita.


CARRIERA FINITA?
Dopo la sentenza il Plymouth rescisse il contratto il giorno successivo.
La notizia fece molto rumore nel mondo del calcio, basti pensare che Sir Alex Ferguson in persona spedì un messaggio di condoglianze alla famiglia Peak, i due bambini erano infatti accaniti sostenitori del Manchester United e i loro funerali furono seguiti da una massiccia rappresentativa di tifosi dei Red Devils.


LA SCARCERAZIONE(2012)
Nel 2012(dopo 4 anni) la scarcerazione anticipata mise termine alla sua condanna, fissando per giugno 2012 la sua data di ritorno alla libertà.
E lo Swindon Town, club allenato ai tempi da Paolo Di Canio, offrì al giocatore la possibilità di tornare a giocare, accogliendolo in squadra in prova per qualche mese.
Coi Railwaymen (neopromossi in League One) McCormick inizia ad allenarsi già da gennaio, approfittando del regime di semilibertà che gli è stato concesso e prende parte al tour estivo della squadra, in Italia.
Ma la possibilità che il club biancorosso offrì al portiere non piacque alla famiglia Peak: il dolore e la rabbia comprensibile dei due coniugi ha trovato grande risonanza su molti quotidiani, dove ci si chiede se sia giusto riammettere nel mondo del calcio questo giocatore, che in sede processuale si era difeso giurando che non sarebbe più tornato a giocare a calcio.
«Noi siamo la parte lesa», dice il Philip Peak.
«Abbiamo perso i nostri ragazzi perché McCormick guidava ubriaco e lui, invece, non solo torna in libertà dopo meno di quattro anni, ma gli permettono pure di fare il lavoro che vuole».
Anche i tifosi dello Swindon hanno fatto sapere di non gradire l’arrivo dell’ex-numero 1 del Plymouth Argyle.
Le parole di Jeremy Wray, presidente del club, furono chiare:
«Siamo vicini alla famiglia delle due piccole vittime, perché questa tragedia ha distrutto le loro vite, ma il giocatore ha scontato la sua pena e noi vogliamo dargli la possibilità di rifarsi una vita». Perché non offrirgliela? Non ci si può barricare dietro lo strascico emotivo della vicenda (che c’è da credere sia angosciante anche per il giocatore stesso, tra rimorsi e sensi di colpa): espiata la pena, anche lui deve essere lasciato libero di tornare alla normalità. Ugualmente, non si può brandire come deterrente l’inflazionato cliché della vita comoda e rammollita del calciatore, cui è ingiusto che un condannato possa ritornare. Ricordiamoci che i giocatori sono professionisti, e il loro è pur sempre un lavoro. Strapagato, facile quanto tirare due calci ad un pallone… definitelo con tutti gli aggettivi che volete, ma è un mestiere che ha lo stesso status dignitario delle altre professioni: è ciò con cui loro riescono a vivere, l’espressione più alta e creativa del loro talento al servizio della società. 
Perché McCormick non può tornare a farlo?".


LA NUOVA CARRIERA
Tuttavia lo Swindon decide di rilasciarlo ad agosto 2012, senza offrirgli un contratto.
Riparte dal Truro City (Conference South), il club in amministrazione controllata riesce comunque a metterlo sotto contratto, essendo rimasti con solo 1 portiere (infortunato tra l'altro).
Gioca 10 partite e poi ritorna tra i professionisti, firmando per l'Oxford City in League Two.
Gioca 15 match prima di perdere il posto in favore di Max Crocombe e viene rilasciato al termine della stagione.
Il Plymouth, da svincolato, lo riporta all'ovile a maggio 2013.
Gioca una discreta stagione nel 2013/14, ancora migliore quella successiva(2014/15) dove è tra i protagonisti della grande stagione dei Pilgrims.



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lunedì 27 aprile 2015

La Storia Del Surf e Gli Attacchi Di Squali (Zone Pericolose Surf)

Probabilmente il Surf risale al quindicesimo secolo, visto che il termine era noto già ai tempi e si tenevano perfino delle competizioni, durante le quali si sfidavano Re e capi di alto rango sociale.
Le scommesse erano un forte incentivo per la pratica dello sport e quando le onde raggiungevano dimensioni impressionanti le scommesse riguardavano perfino proprietà personali e veniva messo in gioco orgoglio ed onore dei partecipanti.


LA NASCITA UFFICIALE
Tuttavia il primo Europeo che descrisse questo sport fu James Cook, che nel dicembre 1777 vide un indigeno di Tahiti farsi trasportare da un’onda su una canoa; nel suo diario di bordo Cook scrisse: "Mentre osservavo quell'indigeno penetrare su una piccola canoa le lunghe onde a largo di Matavai Point, non potevo fare a meno di concludere che quell'uomo provasse la più sublime delle emozioni nel sentirsi trascinare con tale velocità dal mare".
L'anno successivo, approdando ad Hawaii, Cook vide finalmente degli uomini scivolare sull'acqua in piedi su lunghissime tavole di Koa lunghe cinque metri e mezzo e pesanti settanta chili.
I Re hawaiiani sostenevano di essere i più abili e competenti nella pratica del surf, che stabiliva una sorta di privilegio nelle antiche Hawaii perché fortemente riservato a loro.
Le persone comuni che surfavano godevano di speciali privilegi nelle cerchie reali e guadagnavano lo status di "capi" in base alla loro abilità e resistenza fisica.
I Re avevano shapers e spiagge personali in cui surfavano soltanto con altri della stessa classe sociale e nessuno osava entrare in acqua con loro.


COSTRUZIONE DELLE TAVOLE
La costruzione delle tavole veniva sempre accompagnata da una certa cerimonialità: dopo aver scelto l'albero giusto, ad esempio, prima del taglio veniva offerto alla terra un pesce in segno di riconoscimento, quindi il tronco veniva accuratamente liberato dei rami e sagomato con il solo aiuto di strumenti naturali fatti di pietra e ossa.
Il tronco veniva successivamente trasportato nel riparo dove venivano custodite le canoe, dove avveniva il vero e proprio lavoro di sagomatura e finitura della tavola.
In questa fase venivano usati il corallo che si trovava sulle spiagge ed una pietra ruvida chiamata 'oahi, grazie ai quali le superfici delle tavole venivano perfettamente levigate.
La finitura avveniva spalmando la tavola con la stessa sostanza scura con cui venivano laccate le canoe, fatta con la cenere, il succo di una pianta grassa, il succo della parte interna di una radice e il succo dei germogli di banano.
Uno strato di olio tratto dalle noci di kukui dava alla fine una perfetta impermeabilità alla tavola.


LO SBARCO SULLA COSTA AMERICANA
Verso la fine del diciannovesimo secolo il surf ebbe un'impennata durante il regno del Re Kalakaua (1874-1891), il quale si battè per recuperare tutto ciò che caratterizzava l'antica cultura hawaiiana, incoraggiandone ogni forma d'espressione quali la danza hula, i canti e tutti gli sport.
A questo periodo, precisamente al 1885, risale il "battesimo" del surf sulla costa americana, dove alcuni Hawaiiani che frequentavano una scuola militare a San Mateo, in California, si costruirono delle tavole di sequoia e surfarono le onde alla foce del fiume San Lorenzo davanti ad un pubblico meravigliato ed affascinato dalla loro abilità, che fece scoccare la passione per questo sport anche sul continente.
All’inizio del ventesimo secolo il punto d’incontro per la poca gente che ancora praticava il surf era la zona di Waikiki, sull’isola di Oahu, dove un gruppo di americani aveva fondato l’Outrigger Canoe and Surfing Club ed un gruppo di surfisti Hawaiiani, tra cui Duke Kahanamoku, aveva fondato l’Hui Nalu Surfing Club.
Allora l’unico hotel esistente a Waikiki era il Moana Surfrider, immerso nel verde delle palme e dei banani.
Alla fine degli anni venti le Hawaii iniziarono ad essere frequentate dai pochi turisti che potevano permettersi il viaggio.
In quel periodo Rabbit Kekay segnò un passo storico per il surf, inventando un nuovo stile chiamato “hot dogging”: dopo aver imparato su pesantissime tavole di legno lunghe cinque metri, iniziò ad usare tavole di koa lunghe poco meno di due metri, simmetriche in nose e tail, con un profondo vee nella parte posteriore. Con quelle si riusciva ad effettuare manovre più strette e si poteva finalmente seguire la parete dell’onda. Osservando il suo stile, il resto dei surfisti imparò ad effettuare il bottom turn e a manovrare più agilmente anche le tavole lunghe.
Negli anni trenta gente proveniente da tutte le parti del mondo si recava a Waikiki, dove i beach boys erano diventati famosi per la pratica del surf, della canoa hawaiiana a bilanciere, e la musica.
Fino ad allora, per tanti secoli, gli Hawaiiani avevano conservato il surf per loro stessi e soltanto grazie all’avvento del turismo su quest’isola, il mondo poteva conoscere le meraviglie ed il fascino del surf.


IL DECLINO NEGLI ANNI 40
Con gli anni quaranta e la seconda guerra mondiale il surf subì un nuovo colpo dolente.
Con l'ingresso degli Stati Uniti nella guerra le Hawaii furono sottoposte alla legge marziale e le spiagge hawaiiane furono invase da milizie e disseminate di filo spinato.


L'EPOCA D'ORO E LE COMPETIZIONI UFFICIALI: ANNI 50 E 60
Passati questi anni grigi venne l’epoca dorata del surf moderno, che gli americani ricordano come i favolosi anni cinquanta.
Grazie alla prosperità del dopoguerra ed al grande passaparola effettuato dai militari che in qualche modo erano passati alle Hawaii, i surfisti invasero onde e spiagge come mai prima.
La prima gara internazionale di surf a Makaha, che fu vinta da Rabbit Kekai con una tavola di balsa monopinna fatta da Matt Kivlin, si tenne nel 1956 ed è diventata una tra le manifestazioni internazionali di surf più importanti del mondo.
Gran parte dei criteri e delle tecniche di gara del longboard moderno trae origine proprio da questo famoso evento.
L'arte del surf ebbe un fiorente periodo negli anni sessanta, quando furono prodotti decine di film sul surf.
Il più famoso fu “The Endless Summer”, che generò e diffuse un’immagine molto positiva di questo sport. Tra gli altri, “Blue Hawaii”, con Elvis Presley, “Ride The Wild Surf”, “The Golden Breed”, “Gidget Goes Hawaiian”, “For Those Who Think Young”, “Ride The Wild Surf”, “The Big Surf” e molti altri.
La popolarità del Surf in questo momento in tutto il mondo era in continua espansione, così come la risonanza che avevano i surf contest.
La prima rivista stampata di surf, “Surfing Magazine”, fu fondata proprio nel 1960.
Camicette hawaiiane e gruppi musicali surf (come Beach Boys, Surfaris, Ventures, ecc.) erano molto popolari e ad Huntington Beach, California, fu svolto il primo surf contest della storia degli Stati Uniti e finalmente, durante gli anni settanta, il surf veniva considerato oltre che uno sport, uno stile di vita.
Il surfista che ha vinto più titoli e competizioni in assoluto è Kelly Slater, che nel 2011 ha firmato per l'undicesima volta la vittoria del campionato mondiale professionisti all'età di 39 anni.


GLI ATTACCHI DI SQUALO
Secondo l'International Shark Attack  i Paesi dove si registrano il maggior numero di attacchi sono Florida(USA), Australia, Hawaii, Sud Africa, South Carolina(USA), California(USA), Isole Reunion, North Carolina(USA), Brasile, Bahamas.

Il surfista Robert Weaver ha dichiarato che i posti più pericolosi sono il Sud Africa e le Hawaii, perchè in Sud Africa gli squali sono molto aggressivi mentre alle Hawaii il pericolo è dato dagli squali tigre.
Anche se generalmente gli squali non attaccano l'uomo e vivono lontano dalle coste, le specie più diffuse e pericolose per l'uomo sono lo squalo bianco, lo squalo toro e lo squalo tigre.
Le ragioni per cui gli squali attaccano i surfisti sono principalmente due: per errore (i surfisti con la muta nera sono molto simili alle foche, pasto tanto amato dagli squali) o per difesa quando il surf si avvicina improvvisamente allo squalo.
Le modalità di attacco di uno squalo sono varie: nuotando in superficie e frontalmente, girandoci attorno prima di colpire, attacco a sorpresa dal basso.


ACQUE INFESTATE DAGLI SQUALI: ZONE PERICOLOSE
Dopo i recenti attacchi mortali al largo della costa delle isole Reunion e Western Australia, a partire dal 2011, sono stati registrati 16 attacchi di squali di cui 7 mortali nelle due zone menzionate.
L'ultimo in ordine di tempo quello fatale capitato ad Elio Canestri.
Nell’isola Reunion è notevolmente aumentata la concentrazione di squali negli’ultimi anni e molte persone credono che la causa di tutto ciò sia la presenza della grande riserva marina, la quale si pensa attiri i predatori.
Il crescente numero di attacchi ha contribuito ad un calo significativo dell’attività turistica nell’isola, oltre a portare alla cancellazione di tutte le competizioni di Surf.


BRASILE(RECIFE)
Un tratto di 20 km di costa che comprende la città costiera a nord-est di Recife è statisticamente il luogo più pericoloso al mondo per i nuotatori e surfisti(preceduto probabilmente solo da alcune spiagge della Florida).
Dal 1992, ci sono stati oltre 60 attacchi di squali, di cui 20 sono stati fatali.
Perché questa zona é così pericolosa? Il Brasile è enorme e solo la zona intorno a Recife ha registrato così tanti attacchi.
Il primo problema è sorto negli anni '90 a seguito della costruzione di un grande porto, a soli 40 km a sud di Recife.
Per facilitare il processo di costruzione, due estuari sono stati bloccati ed é risaputo che qui vivesse una colonia di squali toro.
Probabilmente le correnti settentrionali e la riduzione di pesce disponibile hanno spostato gli squali verso Recife, mentre una combinazione di pesca eccessiva, l'aumento del traffico e gli scarichi dei fiumi hanno attirato un’ulteriore popolazione di squali più vicino alla costa in cerca di cibo.
Come alle Isole Reunion, questi attacchi provocarono un divieto di nuotare e surfare, poiché le autorità erano preoccupate per gli effetti negativi sul turismo che questi attacchi potevano provocare.
La spiaggia di Boa Viagem è piena di cartelli che mettono in guardia i bagnanti riguardo gli squali.


FLORIDA
New Smyrna Beach, spiaggia della Florida, può “vantare” il record mondiale di attacchi di squalo con quasi 300 casi registrati.
Tale numero elevato è giustificato dalla presenza di numerosi surfisti.
Altra spiaggia molto a rischio, Ponce De Leon Inlet, situata a nord di Smyrna Beach, non raggiunge i numeri della sua vicina ma garantisce comunque momenti di terrore, con più di 20 attacchi annui.
Entrambe le acque sono note per esemplari di squali bianco.


CALIFORNIA
La California, in particolare la California settentrionale, ha una cattiva reputazione per gli attacchi di squali. Questa zona è un paradiso per il grande squalo bianco: acque fredde, molte foche e tanto cibo in generale.
Conosciuta come "triangolo rosso", questa zona si estende da Bodega Bay, a nord di San Francisco, fino a sud di Monterey Bay e poi al di là delle isole Farrallon.
Lo squalo bianco é responsabile di 3 dei 4 attacchi mortali a verificatisi in California negli ultimi 10 anni (l'unica eccezione si registra a San Diego nel 2008), anche se é risaputo che le femmine migrano per riprodursi in acque più calde al largo della costa della Baja California.
Ma quando si tratta di numero totale di attacchi (solo 33 negli ultimi 10 anni), la California impallidisce in confronto alla costa orientale degli Stati Uniti.


HAWAII
Le Hawaii sono un paradiso e lo sanno anche gli squali tigre, che infatti girano numerosi, soprattutto a Maui. L’ultimo attacco risale ad ottobre 2014, fortunatamente non fatale.
Tra le spiagge più pericolose vanno citate White Beach, che ha cartelli di segnalazione “attenti agli squali”, e soprattutto le acque davanti al parco Pohaku, dove nel 2004 è stato ucciso un surfista di 57 anni.


ISOLE REUNION(OCEANO INDIANO)
Isole tropicali situate nel bel mezzo dell'Oceano Indiano.
Le Réunion sono sempre state delle isole pericolose, ma queste isole non avevano mai sperimentato un numero cosí elevato di attacchi come negli ultimi anni.
Un totale di 16 negli ultimi 4 anni.
Un trend di attacchi da parte di squali toro molto simile a quello di Recife.
Le opinioni sulle ragioni di questo aumento sono diverse tra scienziati, surfisti, subacquei e pescatori.
Dopo aver introdotto un programma di monitoraggio nel 2011, le autorità locali erano inizialmente riluttanti ad introdurre misure di abbattimento (i surfisti erano accusati di prendere rischi irresponsabili), ma altri tre attentati nel 2012 hanno costretto le autorità locali a tornare sulla loro decisione, introducendo un primo abbattimento di 20 squali.
Anche il pro surfer locale Jeremy Flores ha ora paura di surfare nei suoi home spot, dopo la morte di un suo caro amico, causata da uno squalo toro.
Nel luglio 2014 la morte di un nuotatore di 15 anni, a pochi metri dalla riva, ha spinto le autorità ad attuare un ulteriore abbattimento di 90 squali, nonché un divieto quasi totale di nuoto e surf, i cui risultati saranno pubblicati e rivisti questo mese.


AUSTRALIA
Tutta la costa australiana è potenzialmente una zona a rischio, anche se alcune spiagge cittadine come Bondi Beach sono protette da reti.
Nel marzo 2014, uno squalo bianco lungo 3.5 metri è stato catturato e ucciso durante il Quiksilver Pro Gold Coast proprio accanto a Snapper Rocks.
Finora l’Australia registra il secondo più alto numero di attacchi di squali dopo gli Stati Uniti, ma negli ultimi anni quasi tutti gli attacchi mortali si sono verificati in Australia occidentale.
A differenza delle isole Reunion, i grandi squali bianchi ne sono i responsabili.
Tra il 2011 e il 2012, lo stato del Western Australia ha registrato 5 morti in soli 10 mesi su una porzione relativamente piccola di costa.
Molti considerano lo squalo toro essere la specie di squalo più pericolosa per gli esseri umani in quanto ama acque costiere poco profonde e le condizioni di acqua torbida in cui prediligono cacciare sono spesso associate ad aree densamente popolate, e possono anche risalire i corsi dei fiumi.
Zone molto a rischio:
– Shelly Beach e Seven Miles Beach, vicine alla città di Ballino, nel New Galles
– Byron Bay, vicino a Sidney
– Wylie Bay
– Isola di Wedge, vicino a Perth
– Tathra Beach, a sud di Sidney
– Spiaggie antistanti la città di Coffs Harbour
– Neptune Islands, Australia del Sud


SUD AFRICA
Nel 2003, Taj Burrow ha terminato in anticipo una heat dopo aver visto un grande squalo bianco.
La pratica di dar mangiare agli squali ha contribuito ad avvicinare gli squali alla costa e ad aumentare il numero di attacchi, rendendo il Sud Africa il terzo paese nella classifica dell’International Shark Attack File con 12 attacchi mortali negli ultimi 5 anni.
Tuttavia, è importante ricordare che diverse specie di squali prediligono habitat diversi.
Le enormi colonie di foche che vivono al largo di Città del Capo sono ciò che realmente attirano i grandi squali bianchi della regione.
L’estuario di Kosi Bay, situato all'estremità nord-orientale del Sud Africa, è un punto ben noto per gli squali toro, noti ai locali come squali Zambezi.
Sulla costa orientale intorno a Durban le spiagge sono protette da reti, quindi non c'è troppo da preoccuparsi in quell’area.



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domenica 26 aprile 2015

La Storia Di Arthur Cravan: Cambi D'Identità, Match Truccato e Scomparsa

Nella vita di Arthur Cravan (1887-1918) non è semplice stabilire dove finisca la realtà e dove cominci la finzione.
Alto quasi due metri,più di 100 kg, fisico possente, una passione smodata per gli pseudonimi (se ne contano almeno nove), come hobby in primis boxe e letteratura.
Fondò e diresse la rivista letteraria Maintenant, diede scandalo nei sofisticati ambienti artistici parigini, si esibì in stravaganti dancing-boxing.


CAMBI D'IDENTITA' E TRAVESTIMENTI
Pronipote di Oscar Wilde, lo avvistano agli inizi del Novecento, a Losanna, Parigi, Madrid e New York. Disertore professionista, durante la Grande Guerra cambia continuamente cittadinanza e identità per disertare e alla recidiva aggiunge il cambio di genere: riesce a passare una frontiera travestito da donna.
E lo vedono in mille altri posti.
Si dichiara "cittadino del mondo" assumendo 20 nazionalità diverse.
Viene anche espulso dall'accdemia militare per aver schiaffeggiato il proprio insegnante.
Conferenziere farneticante, invece di declamare versi si spoglia e offre dimostrazioni di pugilato.
Poi spara con la sua rivoltella sopra la testa del pubblico e se ne va per fondare una rivista di critica brutale, Maintenant.
Insulta letteralmente tutti i poeti dell'epoca e tra i prosatori copre di insulti il povero Gide, che non ha il coraggio di dirgli assolutamente niente.


LA BOXE, IL MATCH DEL SECOLO E LA TRUFFA
Poi conosce Jack Johnson, il campione del mondo scappato dagli Stati Uniti perché inseguito dall'odio dei suprematisti bianchi.
I due pugili decidono di applicare il dadaismo alla noble art e inscenano la grande truffa dei pesi massimi. Allestiscono in Spagna un incontro che dovrebbe essere il match del secolo.
Jack Johnson all'epoca è un mito, il più grande pugile prima di Muhammad Alì.
Si accordano per una borsa enorme anche per chi perderà.
Il palazzo dello sport non riesce a contenere le migliaia di spettatori: suona il gong, dopo un paio di jab telefonati, Cravan si mette in ginocchio e toccando i piedi di Johnson lo supplica: «Non picchiarmi, mammina, ti voglio bene!».
Il pubblico non la prende bene e cerca di linciare i due pugili.
Loro scappano e si sbronzano in periferia.


LA FUGA IN AMERICA
A questo punto Cravan fa perdere le sue tracce.
Ricompare in America.
A New York vive nei parchi, nel nord del Canada si dedica alla pesca dei merluzzi.
In Messico vive di espedienti, poi gestisce una palestra di lotta libera e prepara una conferenza sull'arte egizia.
Conosce la poetessa inglese Mina Loy, si innamora perdutamente e la sposa, nonostante fosse già sposato con un'altra.
Non capisce le leggi e si chiede incuriosito perché lo accusino di bigamia.
Alla fine Mina scappa a Buenos Aires, lui le scrive lettere colme di poesia.
Secondo André Breton, che lo inserisce nella Antologia dello humour nero, Cravan una notte si ubriaca in una spiaggia messicana, ruba una barchetta e prende il largo a remi, fiducioso delle proprie braccia e convinto di poter ricongiungersi col suo amore a Buenos Aires.
Dopo di ciò, sparì misteriosamente nelle acque del Golfo del Messico, imbarcato come detto su un piccolo veliero per raggiungere Buenos Aires e sfuggire nuovamente alla chiamata delle armi.
Non arriverà mai.


LA SCOMPARSA
Mina lo aspetta per un po', poi torna in Inghilterra.
Lo cerca per tutte le carceri e i bordelli e le palestre degli Stati Uniti.
Poi si arrende.
Lo dichiarano scomparso nel 1918, quando aveva 31 anni.
Sulla sua morte ci sono altre ipotesi: secondo Blaise Cendrars finì accoltellato in una bettola.
Secondo altri la sua scomparsa sarebbe un trucco per fottere i creditori: arrivò a Buenos Aires, cambiò identità e divenne un maestro di tango.
Visse e morì mille vite.


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martedì 14 aprile 2015

La Storia Di Ron Artest: Risse e Problemi Fuori Dal Campo

Ron Artest, oggi conosciuto come Metta World Peace, nasce il 13 Novembre 1979 a New York.
Ron, nel cambio di nome, avrebbe fatto leva sull'odio che molti tifosi gli riversano, e chiunque volesse insultarlo sarà ora costretto a gridare "I hate Metta World Peace" (odio la pace nel mondo).
Ron è conosciuto anche per tutto quel che ha combinato dentro e fuori il parquet.
Fin da giovane ha lottato con problemi mentali che lo hanno portato ad essere violento e spesso sopra le righe.
I  primi incontri con lo psicologo, il piccolo Ron comincia ad averli attorno agli 8 anni, quando nel quartiere non esattamente residenziale del Queens, New York, è costretto a difendersi e ad attaccare per non soccombere sotto le spinte di una città che con i deboli non ha pietà.
Figlio di papà Ron Artest Senior , veterano dei marines con problemi d'alcolismo ed ex pugile con tutto quel che ne consegue.
Già dalla più tenera età sviluppa una naturale predisposizione allo scontro, dopo le notti insonni in cui il padre picchiava la moglie, e soprattutto dopo un evento che Ron ancora ricorda: l'uccisione di un amico pugnalato alla schiena.
La rabbia che Artest porta dentro sembra indirizzarlo verso la boxe, così da incanalare un'energia potente verso qualcosa di meno distruttivo delle strade di New York.
Ciò nonostante, essendo la Grande Mela la capitale mondiale del Basket, il talento per la palla a spicchi è decisamente troppo forte.
Seguiranno anni liceali memorabili, scanditi dal soprannome "True Warrior" che gli viene affibbiato per la sua attitudine guerriera sul campo.


LA NBA
Già inserito di diritto nel primo quintetto della talentuosissima e trafficata Big East, decide nel 1999 di dichiararsi eleggibile al draft Nba.
Scout e franchige illustri sono impressionate soprattutto dalla sua capacità di difendere, tanto da indurre molte squadre a promettere chiamate altissime alla draft lottery.
Tuttavia, in pieno stile Ron Artest, la considerazione dei suoi estimatori è decisamente calata quando si venne a sapere che il nativo di New York non si presentò ai vari meeting per le matricole intento riprendere energie nel letto dopo una intera notte passata con una prostituta.
Le sue quotazioni scenderanno di molto dopo questo episodio, portando il suo nome sulla bocca di Stern soltanto alla chiamata numero 17 effettuata dai Bulls dell'immediata era post Jordan.
Ron ha alle spalle qualcosa come 15 stagioni NBA: Chicago, Indiana, Sacramento, Houston, LA Lakers e New York con il titolo Nba conquistato al fianco di Kobe Bryant nel 2010.
Più volte nominato miglior difensore, ha segnato poco meno di 13.000 punti.


RISSE E PROBLEMI FUORI DAL CAMPO
Nel primo anno di NBA, ai Bulls, dichiarò apertamente che negli intervalli dei match negli spogliatoi per reintegrare beveva cognac, ma la “scena madre” fu nel 2004 quando in Pacers-Pistons dette vita ad una scazzottata con Ben Wallace e da lì la rissa si spostò addirittura sugli spalti con tifosi avversari stesi, qualsiasi tipo di oggetto volato in campo ed alla fine ben 73 giornate di squalifica per Artest.
Passato ai Lakers, e già con il nome di Metta World Peace, eccolo di nuovo in azione quando stende con una gomitata James Harden, apparentemente senza senso.
Ma altre perle della sua vita parlano anche di quando fu sospeso dai Pacers perché, nel bel mezzo della stagione, chiese un mese di vacanza perché doveva incidere un disco.


LA PIU' GRANDE RISSA DI TUTTI I TEMPI: DETROIT PISTONS VS INDIANA PACERS(2004)
La stagione 2004-2005 non è ricordata dagli appassionati NBA per il trionfo finale degli Spurs sui Pistons, né per essere stato l’anno dei vari Lebron James, Anthony, Wade e Bosh.
Quel campionato passò alla storia per le squalifiche che il commissioner David Stern inflisse ai colpevoli dopo i fattacci del Palace di Auburn Hills.
Nei playoff della stagione precedente, i Pistons e i Pacers si erano incontrati nella finale di Conference: in gara 6 Artest aveva fatto un brutto fallo su Richard Hamilton, tirandogli un pugno.
I Pistons avevano poi vinto la partita e passato il turno, per vincere in seguito il titolo NBA, in finale contro i Los Angeles Lakers.
Tra le due squadre era quindi nata una certa rivalità.
Il 19 novembre dell'anno seguente(2004 è appunto ricordato come il giorno della più incredibile rissa mai accaduta su un parquet NBA. Protagonisti i giocatori dei Pistons e dei Pacers, che si stavano contendendo una delle prime partite di regular season, un match di importanza relativa ai fini della classifica.
Indiana, che aveva chiuso la contesa già dal terzo quarto, conduceva di 97-82 a 45 secondi dalla sirena finale.
Nel quarto quarto Hamilton diede una gomitata a Jamaal Tinsley dei Pacers e ci furono le prime proteste e discussioni.
La partita iniziò a essere molto fallosa: qualche minuto dopo Ben Wallace, il centro dei Pistons molto forte e possente, spinse Artest contro il supporto del canestro.
In uno degli ultimi attacchi finali di Detroit, Ben Wallace provò un terzo tempo ravvicinato subendo un fallo gratuito ma non eccessivamente scorretto da parte di Ron Artest.
Il centro dei Pistons reagì in maniera spropositata al fallo, forse vista anche la sconfitta imminente, spingendo l’ala dei Pacers con veemenza e cercando di colpirlo successivamente in altri modi.
Gli altri giocatori, insieme agli arbitri, fermarono tempestivamente i litiganti per evitare il peggio.
Si creò così un parapiglia abbastanza acceso e pericoloso tra giocatori, panchinari, dirigenti ed addetti alla sicurezza.
Artest reagì in maniera inspiegabile: si sdraiò sul tavolo dei segnapunti, si mise un paio di cuffie e cominciò a parlare in un microfono spento.
Il suo comportamento fu considerato come una provocazione e Reggie Miller lo raggiunse per toglierli le cuffie, mentre altri giocatori e assistenti cercavano di calmare Wallace.
Altri giocatori dei Pacers e dei Pistons cominciarono a discutere e a spintonarsi, quando un tifoso di nome John Green tirò dagli spalti un bicchiere pieno di Coca-Cola e ghiaccio, colpendo sul petto Artest.
Ron, perso il controllo, si scagliò contro il tifoso colpevole, menando colpi a destra e a manca con il compagno di squadra Stephen Jackson.
Il putiferio.
Giocatori contro tifosi, lanci di sedie e di birre, bambini in lacrime, addetti alla sicurezza incapaci di sedare gli animi.
Larry Brown, allora coach dei Pistons, e l’analista radiofonico Ricky Mahorn cercarono di calmare il pubblico del Palace lanciando un appello con gli altoparlanti.
Un tutti contro tutti impressionante.
Un’incredibile rissa da far-west, in diretta nazionale sugli schermi di ESPN.
In particolare Ron scavalcò i commentatori dietro il tavolo fratturando cinque vertebre a uno di loro e salì per i sedili.
Raggiunse un altro tifoso pensando che fosse quello che gli aveva tirato il bicchiere e lo spintonò, mentre Green lo afferrava da dietro: in breve tempo si scatenò una zuffa tra i tifosi, Artest e Jackson.
Poi arrivò J.O'Neill.
Dopo essere stato portato di nuovo in campo, Artest tirò un pugno a un tifoso e le cose degenerarono: i giocatori furono scortati fuori dal campo mentre i tifosi tiravano dagli spalti bibite e oggetti.
Uno spettacolo primordiale, irrazionale, assurdo, che ebbe fine solamente quando i giocatori entrarono nel tunnel per gli spogliatoi.


LE SQUALIFICHE
Fu l’ultima partita dell’anno per Ron Artest, che venne fermato per tutta la stagione : 73 partite più gli eventuali playoff, la squalifica più lunga della storia NBA.
Stephen Jackson venne sospeso per 30 partite, Jermaine O’Neal per 25, Ben Wallace per 6, Anthony Johnson per 5, Derrick Coleman, Chauncey Billups, Elden Campbell e Reggie Miller per una a testa.
Punizioni micidiali e forse sproporzionate rispetto ad altre comminate in passato per fatti analoghi: nel 1995 Vernon Maxwell, guardia dei Rockets, salì in tribuna a Portland per colpire un tifoso e venne squalificato per 10 gare.
Stern usò il pugno di ferro per i fatti di Auburn Hills, cercando di mandare un messaggio alle altre “teste calde” della Lega: comportamenti del genere da parte di professionisti ultra-pagati non sarebbero stati più accettati.
Dopo la rissa di Detroit, l’NBA consentì ai Pacers di firmare alcuni free agent per sostituire gli squalificati: vennero fimati l’ala Tremaine Fowlkes, l’ala forte Britton Johnson e la guardia Michael Curry.
Ci fu poi un processo e cinque giocatori dei Pacers (O’Neal, Artest, Jackson, Harrison e Anthony Johnson) e cinque tifosi furono accusati per aggressione e percosse: John Green scontò 30 giorni di detenzione in carcere, mentre gli altri accusati furono multati o condannati a scontare la pena ai servizi sociali o con la libertà vigilata.
Nonostante questo susseguirsi di eventi inaspettati, i Pacers riuscirono a chiudere la regular season con un record positivo (44-38), qualificandosi per i playoff dove, dopo aver superato i Celtics, persero (ironia della sorte) proprio contro i Pistons al secondo turno.
La Gara 6 con cui Detroit staccò il pass per le Finali di Conference è ricordata soprattutto come l’ultima partita NBA di Reggie Miller, icona, bandiera e beniamino di Indianapolis per diciotto anni consecutivi.
I Pistons, dal canto loro, dopo aver vinto l’anello nella stagione precedente, persero la finalissima in gara 7 contro i San Antonio Spurs di Tim Duncan.


IL RESTO DELLA CARRIERA
Artest non giocò più nella stagione 2004-2005 e all’inizio del 2006, dopo aver giocato sedici partite coi Pacers, fu scambiato con i Sacramento Kings per il serbo Peja Stojaković.
La prima metà di stagione di Artest a Sacramento fu buona e la squadra riuscì a raggiungere i playoff.
Le sue altre due stagioni furono meno entusiasmanti: secondo molto osservatori, Artest non tornò ai livelli dell’ultima stagione a Indiana, e i Kings non arrivarono più ai playoff.
Nel 2007, dopo essere stato arrestato e accusato di violenza domestica, fu sospeso a tempo indeterminato dai Kings, che però pochi giorni dopo lo reintegrarono nella squadra.
Nel 2008 fu ceduto agli Houston Rockets, dove giocò bene, arrivando con la squadra ai playoff e uscendo al secondo turno contro i Los Angeles Lakers, che avrebbero vinto il titolo.
L’anno dopo Artest andò proprio ai Lakers, che in quel periodo erano probabilmente la squadra più forte di tutta la NBA: ci giocavano, tra gli altri, Kobe Bryant e Pau Gasol.
Artest si inserì bene e diventò titolare, pur tenendo una media un po’ più bassa del solito, intorno agli 11 punti a partita.
Ebbe quella che in questi casi viene definita una “rinascita”, e giocò soprattutto degli ottimi playoff.
I Lakers andarono in finale contro i Boston Celtics: la serie arrivò fino a gara 7, in cui Artest segnò 20 punti, tra cui un canestro da tre decisivo a un minuto dalla fine.
I Lakers vinsero il titolo.
Nel 2011 il cambio di nome e cognome.
Poi la breve esperienza ai New York Knicks e in Cina, prima di approdare in Italia a Cantù.


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lunedì 13 aprile 2015

Tanking In NBA: Perdere Di Proposito

Il Tanking(tradotto impropriamente come "perdere apposta") è antico quanto la NBA: è infatti sempre successo che alcune squadre traballanti prendessero una provvidenziale imbarcata in vista di un draft particolarmente appetitoso.
Oggi la lottery viene additata come la causa del Tanking, ma in realtà venne introdotta proprio (nel 1985) per evitare che si ripetesse lo spettacolo offerto da Houston nel corso del 1983-84, quando i Rockets erano ormai decisi a toccare il fondo e a riemergere con Akeem Olajuwon o, in alternativa, Michael Jordan.
La radicata convinzione è che, per vincere un titolo NBA, serva passare per il draft, e quindi che, per diventare fortissimi, sia inevitabile passare per un periodo di vacche magre.
Così, i fans accettano di buon grado stagioni magre in attesa del gran colpo.


COME FUNZIONA LA DRAFT LOTTERY
Il sistema statistico che regola l’assegnazione delle “palline” nella Draft Lottery risale all’estate del 1990 e, per una curiosa ironia della sorte, fu concepito per annientare lo stesso fenomeno che ha fatto risvegliare nelle ultime stagioni: il Tanking.
Quando la peggior franchigia della Lega aveva la garanzia di scegliere per prima e l’ordine delle chiamate più importanti ribaltava la classifica della stagione, gli incentivi alle débacle di fine stagione erano particolarmente accattivanti; fino ai tardi anni Ottanta i comportamenti antisportivi riguardavano un numero ristretto di partite poiché la profonda cultura sportiva americana aveva mantenuto vivi gli anticorpi del sistema e il minor numero di squadre rendeva più frequenti e vibranti le rivalità regionali.
L’allargamento della Lega e della sua formula ha provocato un peggioramento della qualità dei bassifondi e ha indotto Stern a vagliare la Draft Lottery: dall’estate 1990, la peggior squadra dell’anno ha avuto il 25% di possibilità di ottenere la prima scelta assoluta e ha ricevuto la garanzia di non scendere al di sotto della quarta chiamata, mentre la penultima si è attestata al 19,9% delle palline presenti nell’urna.
Il 15,6% della terzultima proseguiva la discesa verso la prima esclusa dai Playoffs. Negli ultimi anni, le nuove recrudescenze del tanking hanno riaperto il dibattito sull’eticità della Lotteria e hanno portato all’elaborazione di una proposta di riforma del sistema: il testo definitivo ha affidato alle quattro cenerentole della stagione il 12% di chance di ottenere il #1 e ha fatto calare di pochi decimi le opportunità della quintultima e della sestultima, relegando al #7 la garanzia minima legata al record peggiore dell’anno.


PRIME SCELTE
Negli ultimi trent’anni, alcune prime scelte si sono rivelate giocatori vincenti, da Akeem Olajuwon (2 titoli vinti con Houston), a David Robinson (anche lui a quota 2), passando per S.O'Neill (4 titoli), Tim Duncan (ben 5 anelli) e LeBron James.
O ancora Pat Ewing, Chris Webber, Allen Iverson tutta gente che non ha conquistato l’agognato anello ma che qualcosina ha fatto vedere.
Come dimenticare poi le scelte più recenti, da Derrick Rose a Blake Griffin, John Wall, Anthony Davis e Kyrie Irving (stelle che hanno dinanzi anni per tentare l’assalto alle Finali NBA).
È indubbio che, in generale, chi sceglie per primo rimedia ottimi giocatori.
Uno dei più selvaggi, da questo punto di vista, fu quello del 2003 (James, Bosh, etc).


MA E' SEMPRE LA STRATEGIA VINCENTE?
Così, molte squadre si lanciano entusiaste in operazioni di Tanking più o meno dichiarato, sebbene, in realtà, non ci siano prove del fatto che “ricostruire” sia la strategia migliore per vincere.
Quattro anni dopo aver scelto con una top-3 pick, solo il 31% delle squadre fa i Playoffs.
Dal 1976, 51 squadre hanno chiuso con meno di venti vittorie, e di queste, solo una ha vinto il titolo nei cinque anni successivi: si tratta dei Miami Heat (2007-08) dei Big Three, che però non passarono per il draft, ma per la firma di LeBron James e Chris Bosh.
Dal 1985 a oggi, solamente due formazioni hanno vinto il titolo NBA con meno del 66% di vittorie in regular season.
Dal 1985 a oggi, il 90% delle franchigie che hanno vinto meno di 25 partite in una stagione non hanno raggiunto le fatidiche 54 vittorie nel giro di cinque anni.
Insomma il trend è abbastanza chiaro: le pessime squadre tendono a rimanere tali, anche dopo aver scelto alto al draft.
Entro la scadenza del contratto da rookie della propria stella, bisogna aver fatto qualcosa per convincerla a ri-firmare, pena, vederla partire altrove, ma non è facile costruire una formazione d’alto livello in poche stagioni e lo è ancora meno se ci si è sbarazzati di tutti quei buoni giocatori che avrebbero reso impossibile il Tanking “programmato”.
Dal 1985 ad oggi, solo gli Spurs hanno vinto con in squadra una propria prima scelta assoluta (ne avevano due, Robinson e Duncan).
Tutte le altre grandi prime scelte, da Ewing a Webber, da LeBron a O’Neal, o non hanno vinto, oppure per farlo hanno cambiato maglia.
Per giunta, gli Spurs arrivarono alla prima scelta del 1997 in modo anomalo, a seguito degli infortuni che falcidiarono un roster eccellente, che, recuperati tutti gli effettivi, nel giro di due anni vinse il titolo NBA.
È vero che senza una superstar è quasi impossibile pensare di celebrare un titolo NBA, ma non basta avere in squadra un futuro Hall-of-Famer per garantirsi il successo, e non è detto che per selezionarlo occorra la prima scelta.


L'ESPERIMENTO SCIENTIFICO A PHILADELPHIA: SAM HINKIE
Sam Hinkie(GM dei 76ers), brillante laureato della Business School di Stanford, dice che quello dei 76ers è un “esperimento scientifico”.
L’idea è chiaramente quella di accumulare talento, liberare spazio salariale (da usare per assorbire contratti che gli altri non gradiscono, come quello di JaVale McGee, ottenendo in cambio altre scelte) per poi compiere una selezione.
Quindi ha ceduto i giocatori che potevano valere qualche vittoria nell’immediato, come Holiday, Thaddeus Young, Spencer Hawes, Evan Turner, e, ora anche Michael Carter-Williams.
Intanto, Hinkie ha riempito lo staff di Phila di matematici, esperti di scienze cognitive, statistici e anche un Navy SEAL. Il nuovo management analizza tutto, addirittura monitora le ore di sonno dei giocatori, e grazie a Lance Pearson e Vance Walberg, ha implementato una “effort chart”, che misura ogni azione di ogni Sixier secondo una serie di parametri, una versione più specializzata della tecnologia EPV.
Brown e il front-office non incoraggiano i giocatori a perdere, ma è palese che abbiano costruito una squadra che non può vincere.
Tankare in modo scientifico può funzionare?
Esiste un (parziale) precedente a quello che stanno facendo i Sixiers, ed è rappresentato dai Boston Celtics di Danny Ainge; nel 2007, i bianco-verdi avevano accumulato draft-picks, pur trattenendo Paul Pierce. Scambiarono Jeff Green con Ray Allen, e poi impacchettarono un po’ di “talento” (tra cui Al Jefferson, ma anche parecchio ciarpame) in direzione Minneapolis e portarono Kevin Garnett in Massachusetts.
Nel 2013 Hinkie si presentò al colloquio con la proprietà dei Sixers armato di grafici che mostravano quel che avevano appena fatto gli Houston Rockets, ammassando scelte, apparentemente preparandosi a tankare, salvo poi virare bruscamente e usarle per cogliere l’opportunità di ottenere James Harden.
Philadelphia è strategicamente collocata in modo tale da poter fare razzia di tutti i giocatori che riterrà interessanti nelle prossime tre stagioni, incluse molte scommesse al secondo giro.
Il ciclo (scambiare giocatori in cambio di scelte) continuerà finché Hinkie non riterrà di aver trovato i giocatori dai quali ripartire.
L’idea ha del merito teorico, ma non è scontato che poi si traduca in un titolo NBA, perché Phila sta perseguendo il proprio modello gestionale in modo estremo, come visto alla trade deadline, quando Hinkie si è sbarazzato di alcuni dei giocatori migliori in cambio di altre scelte.
Quello che sta facendo Philadelphia mira a garantirsi scelte, ma, ammesso e non concesso che si traducano in un fenomeno, manca tutto il resto.
I Celtics del 2007 si sbarazzarono dei giocatori che avevano allevato a pane e sconfitte spendendoli ai T-Wolves in cambio di Kevin Garnett.
Hinkie invece se ne sta liberando in cambio di altre scelte, ma così facendo, quando Philadelphia metterà le mani sui giocatori che vuole veramente, sarà di fatto una expansion-team, oppure una squadra imbottita di giocatori assuefatti alle sconfitte.
La lista di buoni giocatori dei quali Philadelphia si è sbarazzata inizia ad essere lunga.
In fondo, i 76ers avrebbero potuto scegliere Giannis Antetokounmpo anziché Carter-Willams, e nel 2014 hanno selezionato Joel Embiid, che è fermo per problemi alla schiena.
Forse Embiid è davvero il nuovo Olajuwon, ma potrebbe benissimo rivelarsi il nuovo Olowokandi, e in tal caso, i Sixers avrebbero solo sprecato tempo e due scelte.
Hinkie è uno scout infaticabile, quindi è possibile che, ragionando sui grandi numeri, faccia buon uso delle scelte che sta accatastando, ma la storia NBA è piena di squadre con roster fantastici che non hanno vinto, come i Blazers del 2000, i Kings del 2002-03, i Lakers del 2004.
Inoltre, come detto, scovare il fuoriclasse è solo l’inizio: gli Orlando Magic pensavano d’aver davanti anni e anni per provare a vincere con Shaquille O’Neal, e si ritrovarono con il cerino in mano; i Cleveland Cavs pensavano che LeBron li avrebbe aiutati a vincere finalmente qualcosa, e invece James si trasferì a South Beach.
Persino Sam Presti non dorme sonni tranquilli a causa dell’approssimarsi della scadenza contrattuale di Kevin Durant.
I 76ers sembrano intenzionati a continuare così finché non avranno agguantato l’ambito fenomeno, ma potrebbero volerci anni e anni, durante i quali si costringe l’abbonato a guardare una squadra indegna, in cui militano giocatori che domani potrebbero essere altrove.
A Philadelphia vendono merchandising che recita uno slogan spiritoso: “Avevo un sogno, ma Hinkie l’ha scambiato per una seconda scelta“.
Nessuna lega professionistica dovrebbe mai creare degli incentivi a perdere.

“L’idea di assegnare le scelte in senso opposto al record, per quanto possa suonare moralmente giusto, crea danni al gioco, che non sono immediatamente visibili. Non si può costruire un sistema che premi le sconfitte. Gli economisti se ne preoccupano continuamente, in termini di moral hazard, e cioè l’idea che se assicuri qualcuno contro il rischio, questi diverrà più propenso a prendere decisioni rischiose. Se salvi le banche quando prendono decisioni rischiose e fanno scelte stupide, continueranno a farlo; se mi dai una scelta in lottery per essere stato un GM atroce, dov’è il mio incentivo a non essere un GM atroce?”.

Posto che i 76ers (oppure i Jazz, i Lakers, Boston e i Knicks) rispettano le regole, è evidente che programmare sconfitte va a detrimento della competitività della NBA e della qualità del prodotto.
Le regole attuali incoraggiano quello che gli americani chiamano bottom-out, cioè toccare il fondo.
Anche se la riunione autunnale dei proprietari non ha raccolto i voti necessari per rivedere il meccanismo della lottery, nelle alte sfere dell’Olympic Tower imperversa il dibattito su come eliminare il tanking.
Una delle proposte consiste nel ruotare la prima scelta assoluta tra tutte le trenta franchigie, prescindendo dal record.
Altri invece propugnano una serie di correttivi che alterino le probabilità, oppure un meccanismo più simile alla free-agency, ma con dei limiti all’ammontare dei contratti.


SUPERSTIZIONE
Attorno alla Draft Lottery, negli anni si è sviluppato anche il fenomeno superstizione, con ogni rappresentante di franchigia che ha il proprio portafortuna.
Una “tradizione” nata già nel 1985, alla prima apparizione dell’urna, con Dave DeBusschere che conquistò la 1° scelta assoluta che portò Patrick Ewing ai Knicks grazie ad un ferro di cavallo.
Tra le più note, la palla di cristallo irlandese con cui si presentò Pat Croce al draft 1996 che gli regalò Allen Iverson, o la toccante storia di Nick Gilbert, figlio del Dan proprietario dei Cavaliers e afflitto da una rara malattia, che negli ultimi tre anni ha portato a casa due first pick (2011 e 2013).
Ma c’è anche il rovescio della medaglia: nel 1992 l’eccentrico Donald Carter, allora proprietario dei Mavericks, si presentò con l’inseparabile cappello da cowboy e una pietra portafortuna, con inciso il nome Shaquille in lingua braille. Peccato che la fece toccare anche a Pat Williams, gm degli Orlando Magic.


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