La Fastnet Race è una gara fra imbarcazioni che si disputa al largo delle coste della Gran Bretagna.
Viene disputata ogni due anni ed è lunga 608 miglia nautiche.
Il percorso inizia al largo del porto di Cowes sull'isola di Wight, raggiunge lo scoglio di Fastnet vicino alla costa di sud-ovest dell'Irlanda e girato attorno ad esso si dirige verso Plymouth passando a sud dell'isola di Scilly.
Il Trofeo assegnato al vincitore è la Fastnet Challenge Cup.
La prima edizione della Fastnet venne vinta dall'imbarcazione britannica Jolie Brise nel 1925.
La International Offshore Rule (IOR) venne introdotta nel 1973 con le imbarcazioni che iniziarono ad esibire sponsorizzazioni.
La gara si svolge sempre lungo un percorso oceanico con acque agitate e venti molto forti.
Una delle edizioni passate alla storia per la sua tragicità fu quella del 1979.
FASTNET 1979
L’importante competizione, aveva preso il via, puntualissima, alle 13:30 di due giorni prima, sabato 11 agosto.
Approfittando della bella giornata di sole, migliaia di persone erano convenute nei pressi del porto di Cowes, nell’isola di Wight, per assistere alle affascinanti procedure della partenza.
Le oltre trecento imbarcazioni iscritte costituivano un vero e proprio record e un innegabile successo organizzativo.
Oltre alle cinquantasette partecipanti all’Admiral’s Cup, al via erano infatti presenti anche una sessantina di barche di quinta classe e circa duecento scafi indipendenti.
In gara c’erano quasi tremila uomini, la maggior parte dei quali semplici appassionati.
Un numero enorme, spiegabile solo grazie alle particolari condizioni meteorologiche in cui di norma si svolgeva la regata: mare calmo, venti leggeri e temperature miti.
Così, una dopo l’altra, le sei classi in cui erano stati inseriti i regatanti, presero il via.
La favorevole corrente presente nel Solent, lo stretto canale che separa l’isola di Wight dalla terraferma, spinse in poco tempo tutti i partecipanti oltre i bianchi bastioni dei Needles e, quindi, nel canale della Manica dove, a causa di un buon vento da sud-ovest, adottarono una tranquilla e obbligata navigazione di bolina.
Ma la Fastnet Race non è mai stata una gara semplice, anzi.
Dopo aver lasciato Cowes, le barche devono infatti costeggiare le coste della Cornovaglia, attraversare il mare d’Irlanda, doppiare il Fastnet Rock e, infine, rientrare nel porto di Plymouth.
In totale poco più di seicento miglia nautiche, di cui oltre la metà in pieno Oceano.
Sullo sfondo, a completare il quadro, la possibilità di incontrare insidie ambientali di una certa pericolosità.
Come avvenne quella volta.
Due giorni dopo, infatti, a ovest della Cornovaglia, le condizioni meteo subirono svariati mutamenti, tutti concentrati in poche ore: prima la nebbia, quindi la bonaccia e il tramonto infuocato, infine il giro e il rinforzo del vento.
Dunque la Fastnet Race del 1979 è tristemente nota come la più tragica regata di tutti i tempi, segnò un punto di svolta dal punto di vista delle azioni da compiere per incrementare la sicurezza in regata.
Un’insolita tinta rossa, attraversata da lunghe striature arancioni, infiammò l’intera volta, riflettendosi sulle onde che restituivano bagliori e riflessi inconsueti.
Un tramonto vagamente inquietante, sicuramente spettacolare.
Di sera, poi, il tempo cambiò ancora: il vento, che ora soffiava a venticinque nodi, ruotò verso sud-ovest, spingendo contro gli scafi che avevano già doppiato il faro di Land’s End, in Cornovaglia, onde sempre più grandi e nuvole che non promettevano nulla di buono.
Nel tardo pomeriggio di lunedì 13 agosto 1979 il cielo cominciò ad assumere una colorazione strana.
È vero che il meteo britannico aveva escluso la possibilità di una tempesta, ma l’evidenza diceva un’altra cosa.
Tutti, anche gli skipper più esperti, pretesero allora di essere rassicurati sull’evoluzione delle condizioni del tempo.
La Guardia Costiera, contravvenendo alle regole che vietavano ogni forma di assistenza, ebbe il compito di tranquillizzare i regatanti: per quel tratto di mare la BBC, che ogni sei ore emetteva un bollettino meteorologico, aveva sì individuato un vortice di bassa pressione in rapido transito, ma aveva anche escluso precipitazioni importanti.
Il suo minimo depressionario, di 1.010 millibar, non poteva infatti costituire un rischio reale per le imbarcazioni.
Raffiche sostenute (fino a trentatré nodi), alimentate da un vento forza sei/sette, erano previste soltanto nell’area circostante il faro di Fastnet.
Condizioni sicuramente difficili, ma niente di veramente pericoloso.
La ritrovata tranquillità da parte della maggior parte dei concorrenti durò tuttavia ben poco.
Negli stessi momenti, il mare, sollecitato da un vivace vento da nord-est, iniziò ad aumentare d’intensità.
La brezza, che aveva accompagnato fino a quel mattino le imbarcazioni in gara, era solo un ricordo, così come la strana cappa di nebbia, con relativa bonaccia, che subito dopo aveva avvolto i concorrenti.
La corsa verso il Fastnet Rock, lo scoglio irlandese da sempre boa naturale di metà percorso della prestigiosa Fastnet Race, era stata fortemente rallentata.
Appena calato il buio, infatti, il vento raddoppiò velocemente di intensità, mandando fuori scala gli anemometri.
Quando, poi, i barometri di bordo registrarono un crollo verticale della pressione atmosferica, fu chiaro a tutti che la tempesta che la BBC aveva così frettolosamente escluso stava invece per scoppiare.
Le condizioni del tempo e del mare si fecero subito molto difficili, tanto da spingere molti skipper ad ammainare anche le piccole e resistenti vele tormentine, che fin dal tramonto avevano sostituito gli spinnaker, i genoa e i fiocchi issati nel pomeriggio.
Servì a poco, anzi, a posteriori questa decisione si rivelò un errore.
Privati anche della velatura più robusta, che avrebbe almeno garantito una propulsione minima, ma sufficiente per governare meglio la situazione, quasi tutti gli scafi, soprattutto i più piccoli, si trovarono ben presto in balia degli elementi.
Molti alberi maestri e timoni furono distrutti dalla forza del vento e scaraventati in mare da autentici muri d’acqua che, in qualche caso, ghermirono anche alcuni sventurati marinai.
MORTI E SUPERSTITI
Le operazioni di recupero cominciarono quella notte stessa e coinvolsero circa quattromila uomini a bordo di mezzi navali britannici, irlandesi e olandesi.
A partire dalle prime luci dell’alba di martedì, con i venti calati sotto i quaranta nodi, poterono intervenire anche alcuni elicotteri Sea King che trassero in salvo centinaia di persone.
Di quindici marinai non si ebbero invece mai più notizie.
Alla fine, delle oltre trecento imbarcazioni iscritte, se ne ritirarono centonovantaquattro, quasi tutte appartenenti alle classi inferiori, cinque affondarono e ventiquattro vennero abbandonate in mare.
Per la cronaca la gara la vinse il Tenacious, uno scafo di proprietà del miliardario Ted Turner, che all’alba di martedì aveva doppiato il Fastnet Rock sommerso da onde alte venti metri.
Il veliero americano non fu tuttavia salutato dal consueto entusiasmo riservato al vincitore.
Gli spettatori presenti all’arrivo, infatti, decisero che, quella volta, la Fastnet Race l’avrebbe vinta ogni equipaggio che sarebbe riuscito a rientrare sano e salvo a Plymouth.
Migliaia di occhi commossi rimasero così in attesa a scrutare l’orizzonte.
Al termine della regata solo 85 yacht, la maggior parte delle classi maggiori, portarono a termine la sfida che stando alla cronache dell’epoca non fu neanche stilata ufficialmente.
In totale ci furono 15 morti e ben 24 equipaggi dovettero lasciare le loro barche.
Molte colarono a picco insieme ai membri degli equipaggi, mentre otre 130 persone furono miracolosamente salvate dalla morte grazie all’eroico intervento delle squadre di soccorso inglesi e bretoni che si mobilitarono in tempo per rendere meno tragico il numero delle perdite.
La tempesta fu talmente furiosa che si registrarono onde alte anche 20/25 metri che frangendosi sulle barche le spazzarono via.
Velocità di oltre 70 nodi (125 km/h).
Insomma condizioni da uragano tropicale, amplificate dai bassi fondali dei Western Approaches.
A registrare le perdite maggiori furonoovviamente le piccole imbarcazioni molto leggere e non certo adatte ad affrontare simili condizioni meteo marine.
Le regole IOR dell’epoca permettevano infatti la partecipazione di molti scafi dal dislocamento medio leggero e con poca stabilità iniziale così che le onde li capovolsero più volte sbattendo fuori bordo i marinai.
QUALCHE NUMERO E GLI ERRORI COMMESSI
Delle 303 barche partite, 235 rimasero nella tempesta.
In generale:
46 barche cercarono di fuggire.
26 preferirono mettersi alla cappa con la tormentina a riva(molte di queste sono state ribaltate).
86 barche ammainarono le vele, rifugiandosi all'interno.
Complessivamente 76 barche si sono capovolte e 5 sono affondate con 24 equipaggi che hanno abbandonato le barche cercando di fuggire con delle zattere(sulle imbarcazioni ormai imperversavano le onde con alberi maestri distrutti, oggetti spostati da una parte all'altra e soprattutto gelo).
Più vittime sono state riscontrate negli equipaggi che si sono messi a cappa e soprattutto tra coloro che hanno abbandonato le barche rifugiandosi sulle zattere(molte si sono capovolte, altre sono state sommerse dalle onde per la rottura delle vele con gli equipaggi che sono rimasti al gelo).
24 barche sono state trovate quasi integre, anche se vuote dagli equipaggi.
Furono 15 le vittime con 6 dispersi in mare.
Centinaia i semi-assiderati recuperati in mare, 138 invece furono recuperati dai vari elicotteri.
ABBANDONATI NELLA TEMPESTA
Molti sopravvissuti alla tempesta negli anni hanno narrato le loro disavventure in vari libri, ma tra quelli in vendita il più bello e commovente è senz’altro quello scritto da Nick Ward: “Abbandonati Nella Tempesta” Nick, insieme ad altri cinque compagni di avventura, faceva parte dell’equipaggio del Grimalkin, un quinta classe che si trovò praticamente nell’occhio del ciclone dove la pressione scese fino a 979 millibar e si sollevarono onde alte come palazzi.
In quella notte di terrore Nick Ward si risvegliò in acqua dopo aver perso coscienza.
Per sua fortuna la cintura di sicurezza resistette alla forza delle onde e si ritrovò solo sul Grimalkin con Gerry Winks che moribondo lo lasciò dopo poco averlo riportato a bordo della barca ormai completamente alla deriva.
Gli altri membri dell’equipaggio, Matt Sheahan, Mike Doyle e Dave Wheeler, se n’erano andati su una zattera convinti che i due superstiti fossero morti come il padre di Matt mai più ritrovato.
La narrazione cruda ed aspra di quei momenti prima del salvataggio, avvenuto alle 20:45 del 14 agosto, rendono questo libro unico e coinvolgente tanto che sembra quasi di rivivere i tragici eventi.
Per oltre quindici di ore, Nick Ward sopravvisse sulla barca disalberata che, per sua fortuna, non voleva affondare.
Gerry gli morì tra le braccia e lui ne raccolse le ultime parole in ricordo della moglie adorata.
Secondo quanto emerge dal testo fu proprio il cadavere di Gerry, a cui Nick Ward si aggrappò per resistere, a dargli la forza di non morire.
Per ore e ore gli parlò, s’immaginò le sue risposte, arrivo persino ad insultarlo e buttarlo fuori bordo.
Il racconto di quel folle delirio notturno è certamente la parte più angosciosa ma anche più bella del libro.
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